Venerdì 03 Febbraio 2012 11:06
di Giovanni Ugas
Offrendo il mio contributo sulla problematica della resistenza dei Sardi ai Romani, negata da un articolo apparso di recente su un quotidiano, non intendevo aprire un dibattito sulle mie considerazioni,
ma ho apprezzato il fatto che l’argomento abbia suscitato interesse e non mi sono sottratto al dibattito appresso sopraggiunto. Da parte mia ho ritenuto opportuno rispondere ai commenti sulla mia nota ma non è possibile intervenire all’infinito sui commenti dei commenti, specie se non sono prettamente in tema, come quelli sulla scrittura nuragica e su altri argomenti (ad esempio la funzione dei nuraghi), ma sono disponibile, se si vuole, per uno specifico dibattito sulla scrittura e su altre tematiche di archeologia pre-protostorica. Quanto al tema della costante resistenziale ritengo più corretto che la discussione parta da una relazione specifica e che veda l’apporto di qualche esperto di sociologia, etnologia e linguistica oltre che l’archeologia. Riguardo alla discussione in corso, al momento, credo opportuno intervenire solo per alcune precisazioni, poiché mi è stato esplicitamente chiesto.
- Riguardo al bel quesito di Roberto Bolognesi come fosse possibile conciliare le ripetute gravi sconfitte e il gran numero di prigionieri strappati all’isola con la capacità dei Sardi di continuare a resistere contro i Romani, occorre dire che necessariamente le stragi, le catture e i conseguenti trasferimenti di tanti Sardi che portarono al detto Sardi Venales, dovettero provocare un rilevante depauperamento della popolazione delle piane e delle fasce collinari, ma non un completo genocidio. Alla cifra di centomila uomini uccisi o prigionieri, deducibile soprattutto dai dati di Tito Livio, indipendentemente dal fatto che fosse esagerata o no, si contrappone una popolazione ancora consistente, pur di non semplice valutazione.
Nell’Età punica la popolazione autoctona dovette scendere ben sotto il picco di 450-700 mila abitanti raggiunto nell’età del Bronzo recente e finale (1300-900 a.C.), desumibile dal computo di 7.000 nuraghi e circa 2500-3000 villaggi (Ugas, Africa Romana, XII, p.541; in Per una riscoperta della storia locale. La comunità di Decimomannu nella storia, p.160). La stima della popolazione sarda al tempo dell’occupazione cartaginese è di 250-400 mila abitanti. Inoltre va tenuto presente che già a seguito dell’occupazione di Cartagine una parte della popolazione iliese andò a rifugiarsi sulle aree montane, ma d’altra parte si può supporre che al tempo dei conflitto con Roma, Cartagine abbia avuto bisogno dei Sardi ed è verosimile non soltanto che abbia riconosciuto l’indipendenza delle zone interne, ma anche che abbia concesso una notevole autonomia alle altre regioni suddite dell’Isola e migliori condizioni fiscali, favorendo il rientro di una parte notevole dei profughi nelle vecchie residenze. In ogni caso, nel III secolo si riscontra il ritorno della popolazione sarda (con i suoi propri culti), in diversi abitati nuragici delle piane prima abbandonati ed è ovvio pensare che tale rientro sia coinciso soprattutto col periodo in cui l’isola ebbe un pur breve momento di indipendenza, intorno al 217-215 a.C., quando furono coniate le monete sarde con l’effige del toro.
Nell’apogeo dell’Età romana imperiale la popolazione sarda era di nuovo fortemente risalita e doveva aggirarsi intorno ai 400-650 mila abitanti stando ai dati archeologici rilevati nei territori corrispondenti alle quattro curatorie di Gippi, Nuraminis, Decimo e Dolia del Giudicato di Cagliari (Ugas, in La comunità cit. p.161), poiché allora gli abitati erano molto numerosi, quasi pari a quelli d’età nuragica, dunque una stima ben superiore a quella precedente di 150 mila prospettata da P. Meloni (Storia Romana). Per quanto riguarda il periodo degli inizi dell’Età romana repubblicana, quando iniziò la nuova fuga degli Iliesi sulle montagne, la popolazione dell’isola era all’incirca come quella di età punica e dunque doveva aggirarsi intorno ai 250-400 mila abitanti, una cifra sufficiente, nonostante le stragi, per creare azioni di guerriglia contro il contingente militare romano di stanza nell’isola che, in permanenza, doveva essere modesto. Ovviamente Roma con la vastità del suo impero, non poteva lasciare di stanza permanente in Sardegna il grosso delle sue forze. Certo è che in Età romana repubblicana, i popoli isolani di origine tribale autoctona erano ancora in numero consistente.
Ovviamente occorre tener conto dei coloni e di altri gruppi di immigrati trasferiti, all’opposto, nell’isola. Come si sa, i Romani intensificarono l’opera di controllo dei territori sardi occupati trasferendo coloni da altre regioni, come i Patulcenses Campani. Inoltre furono trasferiti grossi contingenti di militari stranieri, come al tempo dell’imperatore Tiberio (19 d. C.) quando furono inviati nell’isola ben 4000 giovani giudei per reprimere “il brigantaggio”, vale a dire per combattere la resistenza se furono impiegati tanti uomini armati. Per converso, i Sardi collaborazionisti a loro volta formavano intere coorti delle legioni romane e ciò è un indizio che essi erano ancora numerosi, benché in situazioni di disagio economico, a causa dei continui prelievi fiscali (decime e altro). In effetti, le notizie letterarie rivelano che nelle piane vi erano Sardi collaborazionisti ma anche acerrimi oppositori di Roma, tanto che Cicerone definiva i Sardi indiscriminatamente pellites o mastrucati con evidente riferimento a tutti e per estensione anche agli abitanti filopunici di origine fenicia, come quelli di Sulci e Nora, che pellites non erano. Non erano ancora integrati del tutto i Gallilenses, stanziati ai margini della Barbagia di Seulo, in conflitto per i confini con i citati Patulcenses come attesta la tabula di Esterzili relativa a un accordo del 69 d. C. ( M. Bonello Lai 1993; R. J. Rowland, Jr 2001). La loro tribù verosimilmente aveva il capoluogo in agro di Esterziili nelle vicinanze dalla monumentale Domu de Orgia di Cuccureddì (Cuccuru Eddìli), il cui nome può ben discendere da Cuccuru (G)ellili, sul colle di Santa Vittoria, a 1200 metri di altitudine, dove gli scavi di Alessandra Saba e della Soprintendenza Archeologica di Sassari e Nuoro stanno mettendo allo scoperto un antico villaggio fortificato di straordinaria rilevanza storica. Gellili di Esterzili ha dunque ha tutta l’apparenza di essere l’antico nome dell’abitato da cui prese origine la tribù nuragica dei Gallilesi e la curatoria medioevale di Gallila. Allora nel I secolo d. C, i rapporti dei Gallilenses con Roma erano già stabilizzati se si fa affidamento sulla città per dirimere la contesa con i Patulcenses.
Di sicuro la libertà doveva pesare notevolmente ai Sardi delle piane e delle colline trasferitisi nei suoli aspri delle montagne barbaricine che non potevano contenere tanta popolazione, richiedendo in primo luogo la loro trasformazione da agricoltori in pastori, cacciatori e razziatori. Occorrerebbero ulteriori e intense azioni di rilevamento e di analisi dei villaggi interni nelle Barbagie per quantificare la popolazione complessiva ivi residente al tempo delle occupazioni di Cartagine e Roma nell’isola , ma è presumibile che a causa della situazione geomorfologica e delle condizioni naturali non sempre favorevoli, il numero degli Iliesi delle piane che scelse la via della libertà non poteva essere molto rilevante in assoluto e pur tuttavia la gente barbaricina era ben organizzata se fu capace di resistere ai cartaginesi prima e ai Romani poi. Quando G. Lilliu parla di una sorta di Riserva indiana, pensa proprio alle condizioni di difficoltà in un territorio aspro, più agevole da difendere, ma anche difficile da tenere a lungo e per un numero consistente di persone. Affinché la resistenza degli Iliesi dell’interno potesse avere successo per lungo tempo in tali difficili condizioni doveva avere l’appoggio non solo morale, ma anche sostanziale dei loro consanguinei Iliesi delle piane, soprattutto quando compivano le razzie, le “bardane “ è da credere nei campi e nelle stalle dei coloni immigrati. Iliesi (e Balari) dell’interno e delle piane avevano la stessa origine e gli uni egli altri sopportavano a malincuore una situazione che Cartagine prima e Roma poi controllavano l’isola grazie alle loro imponenti forze militari più che alle colonie agricole di nuovi immigrati.
Come ho già detto, la persistenza dei culti nuragici documentata in Marmilla segnala una notevole presenza nei centri rurali, sino al II secolo d. C., di Sardi indigeni che resistevano se non altro culturalmente alle proposte romane, nonostante la stessa Roma cercasse di ingraziarseli con il riconoscimento del Sardus pater come divinità locale, avvicinato iconograficamente al Mars romano. La stessa diffusione della lingua latina che, è un fenomeno culturale, non va necessariamente di pari passo con l’asservimento ideologico de Sardi alla politica imperiale di Roma. Se, i centri costieri come Bithia continuavano a usare la lingua punica sino al secondo secolo d. C. eppure erano stati occupati dai romani prima degli altri, gli abitati rurali sardi non necessariamente dovevano essere più solleciti nell’uso della scrittura e della lingua latina. In Sardegna hanno regnato bizantini, pisani, catalani eppure la lingua di queste genti ha avuto un penetrazione relativamente ben più limitata. Il fatto è che le iscrizioni pubbliche romane erano strumenti di dominio e di persuasione politica, accompagnando opere di notevole utilità come le strade e i ponti, e pertanto grazie anche ai coloni e agli esiliati, talora colti, la scrittura e la lingua dei Romani penetrarono profondamente e in modo ben più sistematico di quelle di altri conquistatori giunti nell’isola dopo di loro. Ciò non significa, tuttavia, che tutti i Sardi fossero asserviti e non avessero mantenuto ancora per lungo tempo, come bilingui, la lingua indigena (iliese, balare o corsa che fosse). La stessa questione dell’abitato interno di Sorabile lungo il percorso stradale interno romano da Caralis a Olbia, va considerata con molta prudenza. M. Pittau (1997) propone la derivazione del nome di Sorabile da Serapis, presupponendo un tempio dedicato a questa divinità di origine egizia, ma il fatto che il termine Sorabile sia attestato in questa forma già nell’Itinerarium Antonini, all’inizio del III sec. d. C. rende improbabile una così rapida sua trasformazione e dunque la derivazione di Sorabile da Serapide. Sorabile può essere pertanto il nome indigeno di un insediamento preromano, inserito lungo il percorso dell’importante arteria romana in un periodo di convivenza pacifica tra i Romani e la popolazione iliese arroccata sulle montagne, ma disposta anche a trattare su questioni di grande rilevanza sociale. Una strada, e il ponte sul Gusana costruiti dai Romani, potevano condurre con più rapidità l’esercito nemico sulle montagne dei ribelli iliesi, ma anche in fin dei conti, potevano essere utili e vantaggiosi per le relazioni commerciali di questi ultimi con i centri agricoli rurali e eventualmente per le loro razzie.
-Rispondendo alle osservazioni di “Illiricheddu” (mi spiace di non conoscere diverse persone che hanno portato i loro commenti) debbo rilevare che è ben noto dalla letteratura antica, e non è una mia suggestione, che ancora in età punica e romana esistevano diversi popoli oltre che molte tribù interne. Indubbiamente i Balari, i Corsi e gli Iliesi avevano tutti una loro ben specifica identità e dunque all’origine anche una lingua diversa ed è altrettanto noto che gli Iliesi erano considerati esplicitamente “barbari” dagli scrittori greci e romani, cioè non parlanti né greco, né latino e non di meno lo erano i Balari e i Corsi. Quando sia avvenuta la latinizzazione e in quali modi, al di là di qualche iscrizione latina, non è dato sapere. Come ho detto sopra, ancora nel secondo secolo d.C. nelle città costiere si usava la scrittura (e con essa la lingua) fenicia e pertanto è verosimile che anche i Sardi indigeni abbiano continuato per un certo tempo a parlare il “balare”, il corso e l’iliese e che per un periodo di tempo siano stati bilingui. Purtroppo non conosciamo iscrizioni registrate in una scrittura sarda in età punica e romana e d’altra parte la lingua sarda non appare usata nei documenti pubblici ufficiali registrati in caratteri latini; ciò impedisce di sapere quanto a lungo è persistita la lingua sarda nelle aree soggette ai romani. Per quanto riguarda il momento dell’acquisizione del latino da parte degli Iliesi delle regioni montane (e il momento in cui essi hanno cessato di parlare la loro lingua originaria, che non necessariamente coincide col primo), i linguisti esprimono idee diverse e di certo possono rispondere meglio di me Massimo Pittau, Giulio Paulis, Maurizio Virdis ed Eduardo Blasco Ferrer oltre che gli archeologi, gli storici e gli epigrafisti come Giovanna Sotgiu, Raimondo Zucca, Attilio Mastino, Marcella Bonello, Antonio Corda etc..
Che poi i Balari abbiano a che fare con una popolazione iberica è indicato da varie fonti storiche, linguistiche (tra l’altro Minorca era chiamata Nura) e dai dati dell’archeologia preistorica (diffusione della cultura del vaso campaniforme e degli individui brachicefali, presenza di edifici simili a quelli della prima fase protonuragica). Che certi elementi toponomastici e anche lessicali sardi siano imparentati con la lingua basca è sostenuto da tanti illustri linguisti, al di là del fatto che E. Blasco Ferrer enfatizzi tale fenomeno. Anche se i relitti linguistici di origine basca fossero pochi, non possono essere in ogni caso negati del tutto e occorrerà capire se vanno distinti dai toponimi sardi prelatini connessi con la più diffusa parlata iliese che, a giudicare dai dati archeologici e antropologici aveva una matrice mediterranea sud-orientale ed era dunque imparentata con le altre parlate dei popoli del ramo rosso “camitico” (libio, egizio, cretese e cananeo (pre-semitico), per lo più legati a costumi matrilineari e al culto di una grande Dea e degli antenati in epifania zoomorfa. Finora l’elemento non ben messo a fuoco è proprio quello iliese, eppure i toponimi a base Gon- riferiti a rilievi, diffusi in tutta l’isola (Gonnos, Goni, Gonnesa, Bonnanaro/Gonnanaro e Gono/Bono nel settentrione) ad esclusione di quella occupata dai Corsi ma anche nell’Africa Settentrionale (Gona o Bona, Capo Bon), nella penisola iberica (Goi, Gonimenda) in Creta (Gonossos), nella Grecia (Gonoessa), sono i segnali di un orizzonte mediterraneo su cui occorre volgere lo sguardo con particolare attenzione.
- Riguardo ancora ai quesiti di Illiricheddu, ho fatto riferimento al sirilugum, richiamando Plinio il Vecchio, per evidenziare che il nome dell’antico abitato di Sirilò aveva una origine prelatina. Infatti, riferendosi al muflone, Plinio ricorda l’ophion come appartenente a una specie estinta e lo distingue dal musmo che colloca in Corsica e in Spagna (Nat. 8.199) e lo affianca (XXX,146), credo per la stranezza del nome, al sirulugus (secondo altre lezioni sirilugus, sirugulus, subiugus), chiaramente richiamato dai nomi sardi con prefisso tziri-, tzili- o tili- quali tiligugu, tirigugu, tziricuccu e tzatzaluga, riferiti a piccoli animali, in particolare rettili (geco, gongilo, stellione e altri) come è stato prospettato precedentemente in un commento. Al vocabolo sirulugus e sirilugus si avvicinano i toponimi di Siligogu, nome di un sito con nuraghe in agro di Silanus, e per l’appunto, di Sirilò, che a prima vista derivano il proprio nome da quello del rettile tiligugu, tirigugu o tziricuccu.
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