Giovedì 26 Gennaio 2012 15:26
di Giovanni Ugas
Nel rispondere a coloro che sono intervenuti per commentare la mia nota sugli scavi di Sirilò di Orgosolo, debbo precisare che, nel portare la mia attenzione sulla questione, mi sono limitato a rimarcare il fatto che, stando alle fonti storiche, le aree montane interne della Sardegna restarono indipendenti sino al II secolo d.C.
E non ho affatto toccato il tema ben più ampio e complesso della costante resistenziale. Inoltre, non posso fare a meno di premettere, a scanso di equivoci, che né la mia persona né le mie ricerche sono condizionate da preconcetti di alcun genere, poiché non ho mai cercato di sedermi su uno scanno per guardare gli altri dall’alto verso il basso, ma neanche penso di tenere il capo chino; per dirla in breve la diplomazia non è il mio forte e sono per l’uguaglianza dei diritti e dei doveri e non per le gerarchie umane che portano alla fame, non solo culturale, e alla schiavitù di tanti esseri umani. Per di più preferisco ricercare e imparare più che insegnare, anche se talora è doveroso farlo e lo impongono le necessità della vita e il caso come affermava Jacques Monod. Ovviamente nel mio lavoro posso sbagliare, come del resto può errare chi ha voluto leggere la mia nota, ma non accetto giudizi pretestuosi da parte di nessuno.
Io ho l’abitudine di rispettare il prossimo e chiedo altrettanto rispetto e lo chiedo anche per i colleghi archeologi che con sacrifici e passione svolgono il proprio lavoro. Molti colleghi evitano di intervenire nei blog perché sono diventati teatri di contese assurde e inconcepibili per non dire altro. Per ricercare la verità e per diffondere i propri principi non c’è la necessità di offendere, basta rimarcare il proprio pensiero ed evidenziare i possibili errori altrui. Ho detto possibili perché, ovviamente, tutti possiamo avere la verità in testa e tutti possiamo sbagliare, indipendentemente dal nostro titolo di studio e dalla professione esercitata. Il tempo giudicherà chi ha ragione e chi ha torto. Mi auguro, dunque, che si arrivi a un confronto di idee civile, corretto e rispettoso, perché altrimenti è meglio starsene a casa propria, ad ascoltare un nastro registrato con la propria voce o con quella del proprio idolo. Detto ciò passiamo ad analizzare i commenti.
- Ribadisco il concetto che a mio avviso, stando ai dati della letteratura antica (intendendo anche tutto Diodoro Siculo!) e a quelli archeologici a disposizione, una parte della Sardegna, vale a dire l’area montana delle Barbagie abitata dagli Iliesi fin dal Neolitico e diventata terra di rifugio di altre genti iliesi provenienti dalle terre occupate dai Cartaginesi dopo il 510 a.C. , non solo era resistente, ma libera e indipendente sino al II secolo dopo Cristo.
Più tardi, a partire dal III secolo d. C. la condizione di indipendenza dell’area iliese-barbaricina non appare più in modo chiaro poiché mancano fonti dirette. Infatti, se da un lato nessuno storico afferma esplicitamente che tutta la Sardegna a partire dal III secolo d.C. era passata nelle mani di Roma, dall’altro non vi è neppure chi sostenga che la parte interna dell’isola era libera e indipendente. In effetti, esistono ragioni per pensare sia che lo status di indipendenza delle aree interne fosse perdurato almeno sino al VII secolo dopo Cristo, sia per negarlo. Sto parlando di indipendenza e non di resistenza ai Romani; questa è implicita in una situazione di indipendenza e di contesa tra popoli. Un’altra cosa è la questione della resistenza culturale e politica (e talora guerrigliera) e della costante resistenziale dopo la perdita della indipendenza, benché profondamente legata e di fatto derivante dalla precedente e che non riguarda solo, come giustamente alcuni hanno osservato, l’area barbaricina ma l’intera isola, benché le Barbagie e l’Ogliastra interna abbiano dimostrato una particolare forza e coesione resistenziale, latente o esplicitamente espressa, derivata da innegabili avvenimenti storici e da una propria identità culturale. Ovviamente, uno ha il diritto di non sentirsi indipendentista e di non far parte di una nazione che si oppone allo stato, ma sbaglia quando nega che altri possano nutrire sentimenti di libertà e di autodeterminazione. Basta il solo fatto che ci siano le persone che li dichiarino. Tuttavia, non intendo discutere della costante resistenziale nemmeno in questo mio intervento.
Come ho accennato nella mia nota, l’editto dell’imperatore M. Aurelio Antonino (Caracalla) del 212 che assegnava a tutti i sudditi, e dunque anche ai Sardi, la condizione di cittadini romani fu una mossa politica strategica per rendere più coeso l’impero e ho rilevato che da questa iniziativa imperiale poteva essere derivato un ammorbidimento del conflitto tra i Romani e le popolazioni dell’interno. Fatto sta che mentre dalla descrizione di Tolomeo della metà del II secolo d.C. non emerge la presenza di tappe stradali romane nella Barbagia, e i percorsi sono sostanzialmente costieri e tendono a congiungere i luoghi portuali, le piane campidanesi, e pochi altri siti interni, diversamente nell’Itinerarium Antonini, attribuito al tempo di Caracalla (212-217 d. C.), ma noto da età successiva, si evince l’esistenza di percorsi viari interni e in particolare, come è stato osservato in qualche commento alla mia nota (Elio), di un percorso stradale terrestre che congiungeva Caralis a Olbia passando per Biora (presso Serri), Sorabile e Caput Tirsi (Sorgenti del Tirso, Buddusò) e dunque attraversando la Trexenta, il Sarcidano e il Mandrolisai. Si tratta di un tracciato che ripercorre in parte l’attuale SS 128 che tocca Laconi e Sorgono e risale verso il ponte di Gusana e l’antico insediamento di Sorabile a Ovest di Fonni, restando sostanzialmente ai margini occidentali dei territori barbaricini centro meridionali e invece intersecando un tratto della Barbagia di Ollolai per risalire verso Bitti attraverso Gavoi, Orani e Oniferi o, cosa più improbabile, facendo tappa nell’agro di Lodine, Mamoiada e Nuoro.
La penetrazione romana in Barbagia, attestata da un buon numero di iscrizioni trovate nell’agro di Fonni non è ben definita nei suoi contorni geografici né ben determinata nei tempi. Soprattutto non sappiamo in che forma e in quali tempi si è diffusa una certa onomastica latina. Il Pittau ha richiamato giustamente una serie di nomi barbaricini che hanno un’origine latina, benché su alcuni importanti toponimi quali Fonni e Mamoiada forse occorra sospendere ancora il giudizio.
Occorre chiedersi se questi dati e altri relativi alle iscrizioni e ad alcuni miliari siano sufficienti per affermare senza dubbi che nel III secolo d. C, se non già prima, tutta la regione montuosa del Gennargentu e delle Barbagie fu soggiogata da Roma. Io penso di no, soprattutto tenendo presente ciò che avvenne due secoli dopo, in età vandalica e bizantina. È vero che un tracciato stradale è spesso condizionato dalla morfologia dei suoli e si può ipotizzare che il percorso romano da Cagliari a Olbia non avesse attraversato in pieno i territori barbaricini per evitare i rilievi piuttosto aspri che li contrassegnano, ma d’altra parte si può sostenere che la regione delle Barbagie rimase sostanzialmente indipendente e che fu attraversato solo in una sorta di enclave nella sua porzione nordoccidentale.
Per risolvere queste questioni occorrerà attendere nuovi dati archeologici, perché le notizie della letteratura, come detto, non consentono certezze. A questa ultima ipotesi, tuttavia conducono i dati della letteratura relativi alle azioni dell’imperatore di Bisanzio Maurizio Augusto vissuto tra il 582 e il 602, in particolare alcune lettere del pontefice Gregorio Magno scritte tra il 594 e il 601. Dalla corrispondenza e da altri elementi, come rilevato da vari studiosi e in particolare Mario Perra nella sua raccolta di fonti letterarie antiche, emerge che l’imperatore bizantino aveva ordinato a Zabarda, Dux, cioè comandante generale dell’esercito di Maurizo Augusto in Sardegna, di stanza a Fordongianus di condurre un’azione militare contro i Barbaricini, cioè i discendenti degli antichi iliesi. Nel 594 Gregorio Magno, informato degli esiti positivi dell’azione di Zabarda e sul fatto che è sul punto di stipulare un trattato di pace con i Barbaricini, invia la seguente lettera allo stesso Zabarda: “… Difatti mi hanno scritto che voi avete disposto di stipulare la pace con i Barbaricini, in modo da portarli poi al servizio di Cristo…”.
Quali siano le condizioni esatte del trattato di pace, che di per sé presuppone una indubbia autonomia dei Barbaricini, passata o ancora presente, noi non lo sappiamo, ma la pressione del papa è forte affinché si giunga a una pace a tutti i costi per consentire alla Chiesa di Roma un’azione di conversione al Cristianesimo dei Barbaricini, e forse promettendo di ottenere col verbo ciò che non potevano le armi. Per raggiungere il suo scopo, nello stesso anno 594, il papa Gregorio Magno si rivolge direttamente a Ospitone, riconosciuto come capo e condottiero delle popolazioni barbaricine: “Poiché della vostra gente nessuno è cristiano, questo so, tu sei la persona più autorevole di tutta la tua gente per il fatto che sei cristiano. Infatti, mentre tutti i Barbaricini,come animali insensati, ignorando il vero Dio e adorando (idoli di) legno e pietre,, tu, per il semplice fatto che adori il vero Dio, hai modo di dimostrare la tua superiorità su di loro. Pertanto … devi mostrare a Cristo la tua eccellenza perché possa condurre a lui tutti quelli che potrai, facendoli battezzare ed esortandoli ad amare la vita eterna…”. Come si evince da una lettera successiva (anno 599) di Papa Gregorio a Vitale, procuratore dei beni ecclesiastici, gli accordi porteranno anche all’acquisto da parte del notaio Bonifacio, inviato dal papa, di schiavi barbaricini da destinare “al servizio degli ospizi di povertà”. Un altro elemento per sostenere l’autonomia se non la piena indipendenza delle Barbagie in età bizantina può essere la lettera indirizzata nel 600 da Gregorio Magno a Spesindeo (12): “dato che, come si sente dire, non pochi barbari e provinciali della Sardegna si fanno avanti con gran devozione e col favore divino , per entrare nella fede Cristiana, La vostra magnificenza si adoperi come si conviene, col suo zelo in questa missione, e col fervore si aggiunga al nostro fratello e coepiscopo Vittore, allo scopo di convertirli e battezzarli”.
Chi sono questi “barbari” che abitano in Sardegna e sono distinti dai cittadini della provincia sarda di Bisanzio? Tutto porta a pensare che si tratti ancora dei Barbaricini e in tal caso si dovrebbe parlare di una loro indipendenza rispetto a Bisanzio ancora in piena età bizantina, nel secolo VII e oltre. In ogni caso i Barbaricini erano ben distinti dalla restante popolazione della provincia imperiale della Sardegna, come emerge con evidenza dai toponimi di “Brabaxinus” e simili tanto frequenti nelle restanti regioni dell’isola.
- Riguardo al rifugio degli Iolei/Iliesi delle aree di pianura (Iolaia pedia) nelle aree montane dell’interno a seguito degli scontri con i Cartaginesi, è un evento ben accertato. Piuttosto non è molto chiaro chi incontrarono sulle montagne questi Iliesi in fuga. Si potrebbe pensare ad altri Iliesi oppure anche, tenendo presente un passo di Strabone (V,2,7), ai Tirreni, una popolazione indigena che gli Iolei avrebbero incontrato nell’isola. Ovviamente chi fossero questi Tirreni di Sardegna è un bel problema, già affrontato in termini non risolutivi e che non può prescindere dall’esame delle possibili relazioni con gli Etruschi di tarda età storica. Per quanto attiene questo specifico contesto occorre procedere per ipotesi e non si hanno certezze. A giudicare da altre fonti si potrebbe pensare a Corsi stanziati fin dal Primo Neolitico sulle regioni montane e non cacciati all’arrivo degli Iliesi nel medio/tardo neolitico. Ma non è da escludere che si trattasse di Balari iberici, costruttori di torri, sopraggiunti nell’Eneolitico tardo e nel Bronzo Antico, che si incunearono tra gli Iliesi e i Corsi e si espansero anche nella Barbagia Settentrionale.
Quest’ultima ipotesi si scontra con il fatto che altre notizie delle fonti e alcune iscrizioni di confine latine indicano che gli Iliesi occupavano al tempo dei Romani il centro-sud dell’Isola sino al corso del Tirso, cioè sino alle campagne di Bortigali (Nurac Sessar), Orotelli (iscrizione dei Nurr[itani] ) e Buddusò (Caput Thyrsi). D’altro lato, i toponimi che Blasco Ferrer pone in parallelo con elementi del lessico e della toponimia basca indizierebbero una penetrazione almeno parziale dei Balari in zona iliese, nella Barbagia Settentrionale. A mio avviso si è in presenza di problemi aperti che meritano ulteriori riflessioni.
- La sopravvivenza di culti di tradizione nuragica accertati in nuraghi ristrutturati come templi nella Marmilla ancora in età punica e romana (pensiamo al culto della dea Luna a Su Mulinu di Villanovafranca persistito con un altare nuragico sino al II sec. d.C.) presuppone il fatto che allora una parte consistente della popolazione dell’isola era ancora indigena e che anzi nei centri rurali la popolazione prevalente, sia pure soggetta, era quella d’origine iliese (nel centro sud), balare e corsa (nel Nord), non già quella cartaginese o romana. Dunque nessuna contraddizione tra le analisi di Caterina Lilliu e le affermazioni di Giovanni Lilliu. Non tutti gli Iliesi delle piane si rifugiarono sui monti: una parte rimase, come è naturale che avvenisse, nei loro abitati originari. Ovviamente furono costretti a collaborare con i vincitori, ma ciò non significa che non avessero più contatti, benché non semplici, con quella parte della loro gente che si era rifugiata sui monti per combattere gli invasori, e che anch’essi nutrissero, benché meno espliciti, sentimenti di libertà.
- Per chi ha fatto delle osservazioni sul nome del sirulugum (o sirilugum) si veda Plinio il Vecchio XXX, 146.
Con ciò ho concluso e chiedo scusa se non affronto altre questioni che pure meritano attenzione.
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