ArcheoSardinia
Blog di natura archeologico-culturale. Per la divulgazione, la denuncia e la difesa del patrimonio archeologico Sardo.
mercoledì 6 novembre 2024
venerdì 4 ottobre 2024
mercoledì 3 agosto 2022
Ancient Sardinian Domus de Janas or Houses of the Fairies (with Jeremy Soule's skyrim music).
Un breve video musicale sulle nostre bellissime Domus de Janas! le immagini non sono mie, ma del gruppo archeofoto Sardegna!
#sardinia #italy
domenica 13 dicembre 2020
Recentemente è stato pubblicato un articolo relativo ai "pugilatori" nuragici e all'ipotesi che siano armati di un pugnale, da usare in sinergia con lo scudo rettangolare di cui erano dotati. Tali ferite sarebbero riscontrabili sul petto e sugli arti delle statue. l'articolo è a cura di F. Porcedda ed A. Atzeni, ne consiglio la lettura. Qui il link da cui scaricare gratuitamente il PDF.
https://ojs.unica.it/index.php/layers/article/view/4302venerdì 23 ottobre 2020
venerdì 14 dicembre 2018
Sardinian prehistoric landscape and Nuraghi
Skyrim beautiful OST by Jeremy Soule, plus my pictures of ancient nuragic stones from Sardinia.
The Nuraghi are particular cyclopean masonry towers, made with dry-wall technique. They're dated at least to the Bronze Age. In Sardinia there are at least 6000 nuragic towers, and you can see a tiny number of them in this video. When I play Skyrim I always think that J. Soule's music is perfect for Sardinian prehistory, and when I used to walk around, to visit this sites, I always heard that music in my mind. Hope you like it.
#skyrim #Megalithic #Ancient
domenica 22 luglio 2018
La Tomba dei Giganti di Sa Domu 'e s'Orcu di Siddi (Sardegna)
Alla scoperta delle misteriose Tombe dei Giganti della Sardegna: Sa Domu 'e s'Orcu di Siddi
Le "Tombe dei Giganti" (Tumbas de Gigantes) sono delle strutture utilizzate in Sardegna sin dall'età del Bronzo Antico (BA). La novità in queste strutture sta nell'aggiunta alla camera funeraria di due "braccetti" murari che vanno a comporre l'area definita esedra, una forma semicircolare, a mezzaluna, che nell'aspetto finale va a raffigurare le corna di un toro, laddove il muso risulterebbe essere l'estensione della camera sepolcrale. In quest'area venivano praticati riti funerari, con annessa rottura di vasi, offerte di cibo e libagioni varie, nonché l'accensione di fuochi: presumibili pire per le offerte. Non si sa come i corpi dei defunti venissero portati entro la camera funeraria, attraverso il piccolo portello: forse con delle barelle o tirando i lembi del sudario che presumibilmente avvolgeva il defunto. Alcuni archeologi hanno proposto che i corpi venissero introdotti scoperchiando la tomba, ma tale opzione è tutt'altro che documentata, nonché difficile da eseguire.
Il portello d'accesso veniva chiuso mediante un masso (o meglio "concio") dalla forma particolare, talvolta rinvenuto nelle vicinanze (ne sono esposti alcuni al museo G. A. Sanna di Sassari). Ma da dove viene il nome di "Tomba dei Giganti"?
Ovviamente, il nome ha un origine popolare, viste le dimensioni gigantesche di tali tombe, gli abitanti della Sardegna pensarono sicuramente che all'interno dovessero esservi sepolte persone gigantesche. Di gigante però sono stati osservati solo i conci che compongono il sepolcro, alcuni pesanti anche numerose tonnelate. I corpi rinvenuti all'interno invece sono di dimensioni normali; piuttosto risulta ancora difficile capire il loro status sociale, ovvero se fossero tutti gli individui della comunità, un gruppo familiare ristretto, o solo particolari esponenti di spicco della società (capi, re, principi o "aristoi").
Solo ulteriori studi potranno chiarire questi dilemmi.
Altri link utili:
Articoli e Ricerche Pubblicate, Accessibili Gratuitamente:
https://unica.academia.edu/AlessandroAtzeni
Twitter per rimanere aggiornato su tutto ciò che riguarda il mio lavoro:
https://twitter.com/AtzeniLess
Il mio profilo Instagram:
https://www.instagram.com/sardinianwarrior/?hl=it
lunedì 27 ottobre 2014
Giornate di Studio in onore di Giovanni Lilliu (22-23/11/2014)
nel centenario della sua nascita
Orroli - Villanovaforru 22-23 novembre 2014
Organizzazione generale: Mauro Perra, Paolo Bernardini
I giornata, 22 novembre, Orroli, Biblioteca Comunale
9,30 - Saluti del Sindaco Antonio Orgiana.
9,40 – Saluti Autorità.
10,00 - Presentazione di Vincenzo Santoni.
10,20 – Angela Antona, Giovanni Lilliu e la Gallura.
“L’accantonamento culturale” alla luce delle nuove conoscenze.
10,40 – Giorgio Murru, La stratigrafia muraria di Su
Nuraxi’e Cresia a Barumini.
11,00 - Coffee break
11,30 – Alberto Moravetti, Giovanni Lilliu e la Cultura di
Monte Claro.
11,50 – Giacomo Paglietti, La stratigrafia nuragica del
1955: uno strumento ancora attuale alla luce delle nuove acquisizioni.
12,10 –Antonietta Boninu, Eredità e identità della
conservazione dei beni archeologici.
12,30 –Nadia Canu, Giampiero Pianu, Lilliu e l’archeologia
classica.
13,00 –Buffet
15,30 –Rossana Martorelli, Giovanni Lilliu, preistorico,
sostenitore dell’archeologia cristiana.
15,50 –Rubens D’Oriano, Perchè non possiamo dirci
nuragici:da Lilliu all'"archeosardismo".
16,10 - Mauro Perra, Giovanni Lilliu e le aristocrazie
nuragiche.
16,30 –. Coffee Break
16,50 – Ginetto Bacco, La ceramica grezza altomedievale dal
nuraghe Sa Jacca e la parallela produzione vascolare del Barigadu.
17,10 –Fulvia Lo Schiavo, Luciana Tocco, Giovanni Lilliu e
la metallurgia nuragica: Il ripostiglio di s'Arrideli di Terralba.
17,30 – Riccardo Cicilloni, Il megalitismo preistorico nelle
isole del Mediterraneo occidentale tra gli studi di Giovanni Lilliu e le nuove
ricerche.
17,50 - Discussione
18,30 - Visita al Museo "Sa Dom'e su Nuraxi
Arrubiu" di Orroli.
II giornata, 23 novembre, Villanovaforru, Hotel Funtana Noa
9,30 - Saluti del Sindaco Emanuela Cadeddu
9,40 – Saluti Autorità.
10,00 - Simonetta Angiolillo, Un ricordo di Giovanni Lilliu.
10,20 – Carlo Lugliè, Realtà materiale, discorso scientifico
e ricostruzione archeologica: la Sardegna preistorica di Giovanni Lilliu.
10,40- Luisanna Usai, Religione e arte prenuragica negli scritti
di Giovanni Lilliu.
11,00 - Coffee break
11,20 -Alessandro Usai, Giovanni Lilliu e Mont’e Prama.
11,40 –Fabrizio Frongia, Giovanni Lilliu, Barumini e
l’UNESCO: alcune riflessioni su identità e patrimoni culturali.
12,00 –Fabio Pinna, Il ‘disegno progettuale’ di Giovanni
Lilliu per l’archeologia medievale in Sardegna.
12,20 –Enrico Trudu, Giovanni Lilliu, Su Nuraxi di Barumini
e la stratigrafia nuragica.
12,40- Paolo Bernardini, Giovanni Lilliu e i Fenici.
ore 13,00 Buffet
15,30 – Giulio Angioni, Giovanni Lilliu operatore
politico-culturale.
15,50- Alfonso Stiglitz, "Gli itineranti del naufragio
del millennio". Gli 'Shardana', i 'popoli del mare' e la Sardegna. Omaggio
a Giovanni Lilliu.
16,10 - Paolo Benito Serra, L'ambra nei contesti tombali
dell'orizzonte altomedievale della Sardegna.
16,30 - Coffee break
16,50 – Valentina Leonelli, Dal betilo aniconico al modello
di nuraghe, il simbolismo. Un’altra eredità di Giovanni Lilliu.
17,10 - Discussione Generale
18,00-Conclusioni di Raimondo Zucca
18,30 Visita al Museo "Genna Maria" di
Villanovaforru.
venerdì 19 settembre 2014
Perdas (19-20/09/14 Villa S. Antonio)
il 19 - 20 Settembre 2014 a Villa S.Antonio (Oristano) presso la piazza antistante la chiesetta di S. Antonio Abate.
Programma degli interventi
19 Settembre ore 19.00
Apertura dei lavori
19.00 – 19.30 Ivo Zoncu “ Pietre e suoni"
19.30 – 20.00 Giacobbe Manca "Pietre magico rituali in Sardegna”
20.00 – 20.30 Pinuccio Sciola “Pietre e armonia”
20.30 – 21.00 @Insopportabile “ Pietre, attente vedette del sardolicesimo
proiezione del film “Sciola oltre la pietra” di Franco Fais
21.45 saluti e ringraziamenti
Cena organizzata dalla Pro Loco per prenotare cell. 3471426833
20 Settembre ore 19.00
Apertura dei lavori
19.15 – 20.00 Salvatore Vacca “Pietre e la mente del corpo”
20.00 – 20.30 Carmine Piras “ Pietre e tecnica scultorea al tempo dei Guardiani del Sinis”
20.30 – 21.00 Mauro Aresu “Pietre ed Energie Vibrazionali”
21.00 – 21.45 Giacobbe Manca “Pietre ed evoluzione architettonica nuragica”
21.45 saluti e ringraziamenti.
Etichette:
Architettura Nuragica,
Calcolitico,
Convegni,
Monti Prama,
Neolitico,
Nuragici,
Prenuragico,
Spirali,
Statuaria
venerdì 22 agosto 2014
Lo scavo delle Tombe di Su Fraigu a S. Sperate
Nel 1984 iniziai come tecnico di cantiere i lavori di ampliamento della ss 131 dal km 14+750 al km 18+100. I lavori prevedevano anche la costruzione di n. 2 cavalcavia. Uno era quello della foto. Da mesi erano iniziati i lavori e fino a quel momento nulla era mai emerso dai normali scavi stradali. Ma come sanno fare i cercatori d'oro o di petrolio, anche la Sovrintendenza sa dove trovare il suo greggio.
Quel giorno, fino a quel momento, era stato come tutti gli altri. Mi trovavo a dare istruzioni a un operatore di pala cingolata per asportare lo strato di coltre vegetale su una collinetta dove avremmo dovuto costruire le rampe e il cavalcavia in questione. Si fermò sul ciglio della strada una macchina e chi la conduceva mi si avvicinò presentandosi come assistente del prof. Giovannino Ugas, della Soprintendenza archeologica. Mi disse di continuare tranquillamente il mio lavoro. Nel frattempo, da un acquitrino a due passi da lì, si procurò delle canne e ricavatene dei picchetti incominciò a piantarli qui e lá sul terreno ormai ripulito dall'erba. "Scusi, ma perché pianta quei picchetti ?" Chiesi. "Con molta probabilità sotto ogni picchetto potrebbe esserci una tomba",mi rispose. E mi spiegò anche il perché. Poi dopo ore di lavoro aggiunse che da quel momento dovevo ritenere sospesi i lavori in quell'area. Ci impiegai poco a capire che ci tenevano d'occhio da tempo e non aspettavano altro che intervenissimo il quella specifica zona perché sapevano già che avrebbero potuto trovare proprio lì il loro greggio. E infatti fu così. L ANAS finanziò i lavori archeologici e la soprintendenza potè iniziare la sua campagna di scavo. I lavori durarono molto tempo.
Osservando bisturi, scopette, setacci, disegnatori, antropologi, potei soddisfare la curiostà dei miei giovani occhi seguendo l'avanzamento dei lavori e delle ipotesi che man mano si montavano e smontavano a secondo dei casi e dei ritrovamenti che emergevano. Chiaramente gli archeologi non proferivano parola, osservavano e andavano via. Gli operai, invece, che avevano la schiena china tutto il giorno sugli scavi, ogni tanto lasciavano trapelare qualcosa della loro arte e dei reperti che magari erano già stati portati via in tutta fretta in soprintendenza. Qualche volta capitai lì al momento giusto. Potei così godere di alcuni curiosissimi corredi funerari che ridavano vita nella mia mente a quelli scheletri così antichi quanto vicini per animo.
Evidentemente l'archeologo Giovannino Ugas aveva saputo scegliere bene il suo collaboratore. Infatti sotto quasi tutti quei picchetti, da lui infissi apparentemente alla rinfusa, furono rinvenute altrettante tombe, sepolture, nonchè quelle che dagli esperti sentivo chiamare "sacche nuragiche".
Nonostante il duro impegno nella costruzione della strada, quando passavo lì vicino non mancavo mai di avvicinarmi agli scavi. Per le maestranze archeologiche oramai ero diventato di casa, " novità ?" Ero solito chiedere. Devo dire che quello che mi fu detto fu detto con attento riserbo. E non so neanche se mi fu raccontato tutto sui reperti che effettivamente furono rinvenuti.
La superficie interessata dagli scavi ad occhio non superava i 1000 mq.
Le prime e la maggior parte delle sepolture rinvenute erano di tipo singolo, e senza un particolare ordine planimetrico. Consistevano nel modo più semplice e/o povero di seppellire un corpo. Dopo aver scavato una buca nel terreno, Il defunto veniva adagiato all'interno in posizione rannicchiata su un lato, poi ricoperto di terra. Questa particolare posizione era chiamata dagli esperti "Posizione Fetale".
Lo scavo archeologico della sepoltura avveniva invece a piccoli strati successivi e ogni strato documentato. Lo scheletro iniziava a comparire come spesso vediamo fare con i dinosauri. La terra man mano asportata veniva depositata in prossimità dello scavo fino a formare un piccolo cumulo. Successivamente veniva passata minuziosamente tutta al setaccio. E grazie a questo lavoro che un frammento piccolo come metá di uno stuzzicadenti e incrostato da potersi confondere facilmente con la terra poteva essere ripulito per presentarsi definitivamente ed essere catalogato per quello che era: " FORCINA PER CAPELLI ". Ricordo che in altre sepolture furono rinvenuti come corredi funerari vari tipi di vasellame.
Un giorno fui più fortunato. Capitai lì mentre era stato appena rinvenuto un singolare reperto. " Di cosa si tratta ?" Questa é la domanda che mi fu rivolta mentre mi avvicinavo a loro e contemporaneamente mi veniva mostrata con estrema cura e dolcezza una terracotta. " una piccola brocca" risposi di getto. "Guardala bene, cosa é ? Guarda questo !!!!" . Mi fu indicata una piccola protuberanza che si trovava in corrispondenza della parte alta della pancia della brocchetta. Questo capezzolo non era più grande di mezzo dito medio e aveva un forellino passante che partiva dalla punta fin dentro la brocca. Dovettero dirmelo, non ci sarei mai arrivato. Non ricordo, ma forse non sapevo ancora che era stato recuperato vicino allo scheletrino di un infante. Si trattava di un BIBERON d'altri tempi.
Non saprei dirvi quale sia la tecnica migliore per pescare le anguille. So per certo però, come ne pescammo una noi in cantiere. Eravamo intenti a scavare una piccola porzione di terreno per allargare la strada esistente. Arrivati a ridosso dell'acquitrino che si trovava ai piedi della collinetta oggetto degli scavi archeologici, l'escavatore affondò ancora la benna, questa volta però scomparve nella torba. Quando rispuntò fuori alta, con il suo carico di terra nera grondante d'acqua, a cavallo dei dentoni d'acciaio faceva bella mostra un'anguilla enorme. Una così grande non l'ho più rivista in vita mia. Sarà stata un metro di lunghezza o forse più. Lucente di un verde chiaro fluorescente che sfumava al giallo nel ventre. Cosa c'entra questo con l'archeologia lo pensai tempo dopo, collegandolo a un'altro fatto. Nel frattempo i lavori archeologici continuavano.
Di cosa si nutrivano i nostri antenati? Domanda stupida. Però fa un certo effetto immaginare che una piccola comunità, forse una famiglia, tantissimo tempo fa avesse consumato in prossimità delle tombe un'abbondante pasto di arselle. Forse per non attirare vespe, api, o altri insetti fastidiosi fecero un fossetto per terra grande come un secchio e vi riversarono dentro i gusci avanzati. Quando fu rinvenuto gli operai mi dissero trattarsi di una cosiddetta "SACCA NURAGICA".
Chissà se poi si chiamano veramente così. Non posso escludere che qualche operaio comune, per sentirsi importante ai miei occhi, estendesse terminologie sentite dagli archeologi a situazioni non appropriate. Comunque il ritrovamento di questi gusci lo collegai all'acquitrino a due passi da lì e logicamente al capitone che pescammo con l'escavatore. Una riflessione del tutto personale, s'intende' ma la presenza dell'acquitrino ricco di alimenti poteva giustificare la presenza dell'uomo nei d'intorni in vari periodi e perciò la necropoli con sepolture e tombe di epoche diverse.
Infatti, oltre alle sepolture singole effettuate direttamente su terreno, furono rinvenute anche delle vere e proprie tombe.
Sono passati ormai 30 anni da quei giorni. I ricordi sono un po offuscati e
non rammento più quante tombe a manufatto emersero. Due però me le ricordo con certezza, forse per la loro particolarità rispetto alle altre. Erano infatti tombe collettive.
La prima era di pianta regolare. Muratura perimetrale in pietra. La copertura ricavata con pietroni a lastra grossolana posati inclinati uno contro l'altro come si può fare con due carte da gioco. Nell'insieme aveva tutta l'aria di una piccola casetta tipo quelle di cartone con cui giocavano una volta i nostri figli, anche se più grande. Chiaramente tutto era sottoterra e durante lo scavo la prima cosa che emergeva era la copertura. Una tra le prime pietre rinvenute in copertura era inconfondibilmente lavorata dall'uomo. Scavata in modo regolare al modo di una vaschetta per la raccolta dell'acqua o di piccolo abbeveratoio, e probabilmente lo era stato. Non ricordo se fosse di calcare o arenaria, ma era una pietra eccessivamente porosa da sembrare una grossa spugna. Probabilmente proprio perché non tratteneva più l'acqua, i nostri antenati decisero di riutilizzarla per la costruzione della copertura della tomba. Dicevo prima che questa era la prima tomba collettiva messa in luce in questo sito. Il numero dei corpi, se la mente non mi inganna, era di 13. Gli scheletri vennero trovati come solito in vari strati successivi. Negli angoli all'interno della tomba furono trovati un certo numero di crani raccolti vicini tra di loro. Questo particolare testimoniava che i corpi furono seppelliti in tempi successivi. Evidentemente capitò che per seppellire un corpo si rese necessario creargli dello spazio tra i resti di precedenti morti. Alcuni crani, essendo la parte più voluminosa, vennero perciò spinti negli angoli della tomba prima di inserire il nuovo defunto.
Gli addetti agli scavi, in generale, non sembravano particolarmente colpiti da tutto quello che fino a lì era stato messo in luce. Evidentemente per loro era di routine. Ma a pochi metri di distanza da questa tomba ne avrebbero scavata un'altra che risollevò all'improvviso il loro interesse.
Si trattava di un'altra tomba collettiva. Si capì subito che era decisamente più importante della precedente, se non altro per le sue dimensioni. Sarà stata lunga dai 3 ai 4 metri e larga forse 1,80. Anche questa era confinata perimetralmente da una muratura in pietra calcarea di forma planimetrica leggermente ad ellisse. La profondità era ancora tutta da scoprire.
Le dimensioni della tomba in relazione al numero degli scheletri visibili, già dal primo strato di scavo, erano sufficienti a catturare l'attenzione e la curiosità di ogni persona che a vario titolo capitava lì. In piedi, e guardando verso il basso, tutti non riuscivano a far altro che rimanere ammutoliti. Così rimasi anch'io.
Gli addetti ricurvi sullo scavo con cazzuolini, scopini e altri attrezzi, avevano messo in luce dalla terra quella che a prima vista appariva come una impenetrabile giungla di ossa.
Quasi per caso presi di mira un teschio e scendendo con la vista attraverso la colonna vertebrale percorsi interamente il suo scheletro fino a tutte le periferie. In mezzo a tutti gli altri mi apparve infine chiaro questo corpo. Feci lo stesso esercizio con gli altri scheletri vicini e così via, finché tutto quello strato di ossa disordinate si trasformò chiaramente nelle sagome dei corpi deposti. Avevo davanti a me la stessa vista che un nostro antenato, secoli e secoli fa, lasciò alle sue spalle dopo aver deposto l'ultimo defunto.
Gli scavi continuavano lentamente. Finito uno strato si passava a quello successivo come si gira la pagina di un libro. Il numero dei defunti aumentava inarrestabile, 10, 20, 30, 40, 50,....100,...150....200 .. e ancora si scavava. Il computo avveniva in modo incrociato. Si contavano distintamente i teschi e i bacini, rispettivamente con numeri e lettere. Ricordo che a un certo punto il conteggio non tornava; il numero dei teschi non coincideva più con quello dei bacini. Non saprei dirvi il perché, tantomeno venni a conoscenza delle risultanze finali del computo.
Non ricordo se gli scheletri fossero in prevalenza maschi o femmine. Ma tra tutti, quello che mi é rimasto impresso era certamente di una donna, al punto che ancora oggi l'ho davanti agli occhi.
Il suo corpo era stato deposto supino, le braccia distese sui fianchi risalivano con gli avambracci verso l'addome. E lì, le mani, con i palmi simmetricamente rivolti verso il ventre sembravano proteggerlo. Sotto le mani giaceva rannicchiato uno scheletrino interamente ben formato. Era talmente piccolo che il cranio non era più spesso di un guscio d'uovo. Infatti risultava schiacciato in mille pezzi non avendo sopportato il peso sovrastante. Questa vista toccò profondamente tutti. La donna era sicuramente deceduta, e con lei il suo piccolo, in stato di gravidanza avanzata o forse di parto.
Fin dall'inizio, vista la quantità degli scheletri che andava aumentando, il tema conduttore dello scavo era diventato il " Mistero ".
Io ricordo oltre 200 scheletri ma ho letto in un post che si raggiunsero addirittura i 292.
Si trattava di un'epidemia, di morti in battaglia o cos'altro?
Purtroppo le analisi necessarie a risolvere il mistero sarebbero tante, multidisciplinari e sopratutto di valenza scientifica. Sicuramente il Direttore degli scavi, l'archeologo Giovannino Ugas, avrà pubblicato o quantomeno effettuato una relazione finale con scientifiche conclusioni. Rimando perciò la vostra ricerca presso gli istituti competenti.
Per quanto mi riguarda ho voluto raccontarvi i miei ricordi. Volutamente ho tralasciato di citare datazioni o altro relativamente a reperti e tombe. Questo per non incorrere nei classici errori del profano di turno che si cimenta in campi non suoi. E non escludo che, nonostante questa cautela, non possa averne commessi.
Però, tra i tanti interrogativi che mi posi a uno avrei potuto trovare risposta autonomamente. Il quesito era questo: se la causa fosse stata un'epidemia o si trattasse di morti in battaglia, sarebbero potuto starci in un sol momento 292 morti all'interno di una tomba di queste dimensioni ?
Se si riempisse una vasca d'acqua fino all'orlo e poi si immergesse un corpo, mediamente la quantità di acqua tracimante sarebbe di circa 90 litri, ovvero 0,09mc.
Perciò mc 0,09 * 292 corpi= mc 26 (volume specifico). Questo volume andrebbe maggiorato degli spazi vuoti che certamente si verrebbero a creare tra i corpi a contatto. Stimo perciò in modo restrittivo un aumento del 20% sul totale. Si otterrebbero così circa 31 mc ( volume totale necessario per farci stare 292 morti)
Considerando la tomba lunga circa mt 4,00 e larga 1,80 la sua superficie risulterebbe di mq 7,2.
Dividendo mc 31/mq 7,2 = mt 4,30 (altezza che avrebbe dovuto avere la tomba per contenere 292 morti deposti nello stesso periodo).
Non ricordo esattamente le misure della tomba, ma anche se fosse stata leggermente più lunga e più larga sicuramente non raggiungeva i 2,00 mt di altezza, anzi forse non arrivava a 1,60 mt. Altezza decisamente inferiore a quella necessaria di oltre 4 metri.
CONCLUSIONE
I morti furono deposti in tempi successivi abbastanza distanti tra loro da permettere nel frattempo la diminuzione del volume dei precedenti defunti. Caso contrario lo spazio non sarebbe risultato sufficiente a contenerli tutti. A mio giudizio perciò non si trattò nè di epidemia (leggi unica epidemia) ne tantomeno di morti in battaglia ( leggi unica battaglia).
Alla fine degli scavi fu costruita un ulteriore campata del cavalcavia per salvaguardare la tomba. Tante altre dopo essere state ben documentate furono reinterrate e finirono sotto i rilevati stradali.
Antonello Argiolas
Quel giorno, fino a quel momento, era stato come tutti gli altri. Mi trovavo a dare istruzioni a un operatore di pala cingolata per asportare lo strato di coltre vegetale su una collinetta dove avremmo dovuto costruire le rampe e il cavalcavia in questione. Si fermò sul ciglio della strada una macchina e chi la conduceva mi si avvicinò presentandosi come assistente del prof. Giovannino Ugas, della Soprintendenza archeologica. Mi disse di continuare tranquillamente il mio lavoro. Nel frattempo, da un acquitrino a due passi da lì, si procurò delle canne e ricavatene dei picchetti incominciò a piantarli qui e lá sul terreno ormai ripulito dall'erba. "Scusi, ma perché pianta quei picchetti ?" Chiesi. "Con molta probabilità sotto ogni picchetto potrebbe esserci una tomba",mi rispose. E mi spiegò anche il perché. Poi dopo ore di lavoro aggiunse che da quel momento dovevo ritenere sospesi i lavori in quell'area. Ci impiegai poco a capire che ci tenevano d'occhio da tempo e non aspettavano altro che intervenissimo il quella specifica zona perché sapevano già che avrebbero potuto trovare proprio lì il loro greggio. E infatti fu così. L ANAS finanziò i lavori archeologici e la soprintendenza potè iniziare la sua campagna di scavo. I lavori durarono molto tempo.
Osservando bisturi, scopette, setacci, disegnatori, antropologi, potei soddisfare la curiostà dei miei giovani occhi seguendo l'avanzamento dei lavori e delle ipotesi che man mano si montavano e smontavano a secondo dei casi e dei ritrovamenti che emergevano. Chiaramente gli archeologi non proferivano parola, osservavano e andavano via. Gli operai, invece, che avevano la schiena china tutto il giorno sugli scavi, ogni tanto lasciavano trapelare qualcosa della loro arte e dei reperti che magari erano già stati portati via in tutta fretta in soprintendenza. Qualche volta capitai lì al momento giusto. Potei così godere di alcuni curiosissimi corredi funerari che ridavano vita nella mia mente a quelli scheletri così antichi quanto vicini per animo.
Evidentemente l'archeologo Giovannino Ugas aveva saputo scegliere bene il suo collaboratore. Infatti sotto quasi tutti quei picchetti, da lui infissi apparentemente alla rinfusa, furono rinvenute altrettante tombe, sepolture, nonchè quelle che dagli esperti sentivo chiamare "sacche nuragiche".
Nonostante il duro impegno nella costruzione della strada, quando passavo lì vicino non mancavo mai di avvicinarmi agli scavi. Per le maestranze archeologiche oramai ero diventato di casa, " novità ?" Ero solito chiedere. Devo dire che quello che mi fu detto fu detto con attento riserbo. E non so neanche se mi fu raccontato tutto sui reperti che effettivamente furono rinvenuti.
La superficie interessata dagli scavi ad occhio non superava i 1000 mq.
Le prime e la maggior parte delle sepolture rinvenute erano di tipo singolo, e senza un particolare ordine planimetrico. Consistevano nel modo più semplice e/o povero di seppellire un corpo. Dopo aver scavato una buca nel terreno, Il defunto veniva adagiato all'interno in posizione rannicchiata su un lato, poi ricoperto di terra. Questa particolare posizione era chiamata dagli esperti "Posizione Fetale".
Lo scavo archeologico della sepoltura avveniva invece a piccoli strati successivi e ogni strato documentato. Lo scheletro iniziava a comparire come spesso vediamo fare con i dinosauri. La terra man mano asportata veniva depositata in prossimità dello scavo fino a formare un piccolo cumulo. Successivamente veniva passata minuziosamente tutta al setaccio. E grazie a questo lavoro che un frammento piccolo come metá di uno stuzzicadenti e incrostato da potersi confondere facilmente con la terra poteva essere ripulito per presentarsi definitivamente ed essere catalogato per quello che era: " FORCINA PER CAPELLI ". Ricordo che in altre sepolture furono rinvenuti come corredi funerari vari tipi di vasellame.
Un giorno fui più fortunato. Capitai lì mentre era stato appena rinvenuto un singolare reperto. " Di cosa si tratta ?" Questa é la domanda che mi fu rivolta mentre mi avvicinavo a loro e contemporaneamente mi veniva mostrata con estrema cura e dolcezza una terracotta. " una piccola brocca" risposi di getto. "Guardala bene, cosa é ? Guarda questo !!!!" . Mi fu indicata una piccola protuberanza che si trovava in corrispondenza della parte alta della pancia della brocchetta. Questo capezzolo non era più grande di mezzo dito medio e aveva un forellino passante che partiva dalla punta fin dentro la brocca. Dovettero dirmelo, non ci sarei mai arrivato. Non ricordo, ma forse non sapevo ancora che era stato recuperato vicino allo scheletrino di un infante. Si trattava di un BIBERON d'altri tempi.
Non saprei dirvi quale sia la tecnica migliore per pescare le anguille. So per certo però, come ne pescammo una noi in cantiere. Eravamo intenti a scavare una piccola porzione di terreno per allargare la strada esistente. Arrivati a ridosso dell'acquitrino che si trovava ai piedi della collinetta oggetto degli scavi archeologici, l'escavatore affondò ancora la benna, questa volta però scomparve nella torba. Quando rispuntò fuori alta, con il suo carico di terra nera grondante d'acqua, a cavallo dei dentoni d'acciaio faceva bella mostra un'anguilla enorme. Una così grande non l'ho più rivista in vita mia. Sarà stata un metro di lunghezza o forse più. Lucente di un verde chiaro fluorescente che sfumava al giallo nel ventre. Cosa c'entra questo con l'archeologia lo pensai tempo dopo, collegandolo a un'altro fatto. Nel frattempo i lavori archeologici continuavano.
Di cosa si nutrivano i nostri antenati? Domanda stupida. Però fa un certo effetto immaginare che una piccola comunità, forse una famiglia, tantissimo tempo fa avesse consumato in prossimità delle tombe un'abbondante pasto di arselle. Forse per non attirare vespe, api, o altri insetti fastidiosi fecero un fossetto per terra grande come un secchio e vi riversarono dentro i gusci avanzati. Quando fu rinvenuto gli operai mi dissero trattarsi di una cosiddetta "SACCA NURAGICA".
Chissà se poi si chiamano veramente così. Non posso escludere che qualche operaio comune, per sentirsi importante ai miei occhi, estendesse terminologie sentite dagli archeologi a situazioni non appropriate. Comunque il ritrovamento di questi gusci lo collegai all'acquitrino a due passi da lì e logicamente al capitone che pescammo con l'escavatore. Una riflessione del tutto personale, s'intende' ma la presenza dell'acquitrino ricco di alimenti poteva giustificare la presenza dell'uomo nei d'intorni in vari periodi e perciò la necropoli con sepolture e tombe di epoche diverse.
Infatti, oltre alle sepolture singole effettuate direttamente su terreno, furono rinvenute anche delle vere e proprie tombe.
Sono passati ormai 30 anni da quei giorni. I ricordi sono un po offuscati e
non rammento più quante tombe a manufatto emersero. Due però me le ricordo con certezza, forse per la loro particolarità rispetto alle altre. Erano infatti tombe collettive.
La prima era di pianta regolare. Muratura perimetrale in pietra. La copertura ricavata con pietroni a lastra grossolana posati inclinati uno contro l'altro come si può fare con due carte da gioco. Nell'insieme aveva tutta l'aria di una piccola casetta tipo quelle di cartone con cui giocavano una volta i nostri figli, anche se più grande. Chiaramente tutto era sottoterra e durante lo scavo la prima cosa che emergeva era la copertura. Una tra le prime pietre rinvenute in copertura era inconfondibilmente lavorata dall'uomo. Scavata in modo regolare al modo di una vaschetta per la raccolta dell'acqua o di piccolo abbeveratoio, e probabilmente lo era stato. Non ricordo se fosse di calcare o arenaria, ma era una pietra eccessivamente porosa da sembrare una grossa spugna. Probabilmente proprio perché non tratteneva più l'acqua, i nostri antenati decisero di riutilizzarla per la costruzione della copertura della tomba. Dicevo prima che questa era la prima tomba collettiva messa in luce in questo sito. Il numero dei corpi, se la mente non mi inganna, era di 13. Gli scheletri vennero trovati come solito in vari strati successivi. Negli angoli all'interno della tomba furono trovati un certo numero di crani raccolti vicini tra di loro. Questo particolare testimoniava che i corpi furono seppelliti in tempi successivi. Evidentemente capitò che per seppellire un corpo si rese necessario creargli dello spazio tra i resti di precedenti morti. Alcuni crani, essendo la parte più voluminosa, vennero perciò spinti negli angoli della tomba prima di inserire il nuovo defunto.
Gli addetti agli scavi, in generale, non sembravano particolarmente colpiti da tutto quello che fino a lì era stato messo in luce. Evidentemente per loro era di routine. Ma a pochi metri di distanza da questa tomba ne avrebbero scavata un'altra che risollevò all'improvviso il loro interesse.
Si trattava di un'altra tomba collettiva. Si capì subito che era decisamente più importante della precedente, se non altro per le sue dimensioni. Sarà stata lunga dai 3 ai 4 metri e larga forse 1,80. Anche questa era confinata perimetralmente da una muratura in pietra calcarea di forma planimetrica leggermente ad ellisse. La profondità era ancora tutta da scoprire.
Le dimensioni della tomba in relazione al numero degli scheletri visibili, già dal primo strato di scavo, erano sufficienti a catturare l'attenzione e la curiosità di ogni persona che a vario titolo capitava lì. In piedi, e guardando verso il basso, tutti non riuscivano a far altro che rimanere ammutoliti. Così rimasi anch'io.
Gli addetti ricurvi sullo scavo con cazzuolini, scopini e altri attrezzi, avevano messo in luce dalla terra quella che a prima vista appariva come una impenetrabile giungla di ossa.
Quasi per caso presi di mira un teschio e scendendo con la vista attraverso la colonna vertebrale percorsi interamente il suo scheletro fino a tutte le periferie. In mezzo a tutti gli altri mi apparve infine chiaro questo corpo. Feci lo stesso esercizio con gli altri scheletri vicini e così via, finché tutto quello strato di ossa disordinate si trasformò chiaramente nelle sagome dei corpi deposti. Avevo davanti a me la stessa vista che un nostro antenato, secoli e secoli fa, lasciò alle sue spalle dopo aver deposto l'ultimo defunto.
Gli scavi continuavano lentamente. Finito uno strato si passava a quello successivo come si gira la pagina di un libro. Il numero dei defunti aumentava inarrestabile, 10, 20, 30, 40, 50,....100,...150....200 .. e ancora si scavava. Il computo avveniva in modo incrociato. Si contavano distintamente i teschi e i bacini, rispettivamente con numeri e lettere. Ricordo che a un certo punto il conteggio non tornava; il numero dei teschi non coincideva più con quello dei bacini. Non saprei dirvi il perché, tantomeno venni a conoscenza delle risultanze finali del computo.
Non ricordo se gli scheletri fossero in prevalenza maschi o femmine. Ma tra tutti, quello che mi é rimasto impresso era certamente di una donna, al punto che ancora oggi l'ho davanti agli occhi.
Il suo corpo era stato deposto supino, le braccia distese sui fianchi risalivano con gli avambracci verso l'addome. E lì, le mani, con i palmi simmetricamente rivolti verso il ventre sembravano proteggerlo. Sotto le mani giaceva rannicchiato uno scheletrino interamente ben formato. Era talmente piccolo che il cranio non era più spesso di un guscio d'uovo. Infatti risultava schiacciato in mille pezzi non avendo sopportato il peso sovrastante. Questa vista toccò profondamente tutti. La donna era sicuramente deceduta, e con lei il suo piccolo, in stato di gravidanza avanzata o forse di parto.
Fin dall'inizio, vista la quantità degli scheletri che andava aumentando, il tema conduttore dello scavo era diventato il " Mistero ".
Io ricordo oltre 200 scheletri ma ho letto in un post che si raggiunsero addirittura i 292.
Si trattava di un'epidemia, di morti in battaglia o cos'altro?
Purtroppo le analisi necessarie a risolvere il mistero sarebbero tante, multidisciplinari e sopratutto di valenza scientifica. Sicuramente il Direttore degli scavi, l'archeologo Giovannino Ugas, avrà pubblicato o quantomeno effettuato una relazione finale con scientifiche conclusioni. Rimando perciò la vostra ricerca presso gli istituti competenti.
Per quanto mi riguarda ho voluto raccontarvi i miei ricordi. Volutamente ho tralasciato di citare datazioni o altro relativamente a reperti e tombe. Questo per non incorrere nei classici errori del profano di turno che si cimenta in campi non suoi. E non escludo che, nonostante questa cautela, non possa averne commessi.
Però, tra i tanti interrogativi che mi posi a uno avrei potuto trovare risposta autonomamente. Il quesito era questo: se la causa fosse stata un'epidemia o si trattasse di morti in battaglia, sarebbero potuto starci in un sol momento 292 morti all'interno di una tomba di queste dimensioni ?
Se si riempisse una vasca d'acqua fino all'orlo e poi si immergesse un corpo, mediamente la quantità di acqua tracimante sarebbe di circa 90 litri, ovvero 0,09mc.
Perciò mc 0,09 * 292 corpi= mc 26 (volume specifico). Questo volume andrebbe maggiorato degli spazi vuoti che certamente si verrebbero a creare tra i corpi a contatto. Stimo perciò in modo restrittivo un aumento del 20% sul totale. Si otterrebbero così circa 31 mc ( volume totale necessario per farci stare 292 morti)
Considerando la tomba lunga circa mt 4,00 e larga 1,80 la sua superficie risulterebbe di mq 7,2.
Dividendo mc 31/mq 7,2 = mt 4,30 (altezza che avrebbe dovuto avere la tomba per contenere 292 morti deposti nello stesso periodo).
Non ricordo esattamente le misure della tomba, ma anche se fosse stata leggermente più lunga e più larga sicuramente non raggiungeva i 2,00 mt di altezza, anzi forse non arrivava a 1,60 mt. Altezza decisamente inferiore a quella necessaria di oltre 4 metri.
CONCLUSIONE
I morti furono deposti in tempi successivi abbastanza distanti tra loro da permettere nel frattempo la diminuzione del volume dei precedenti defunti. Caso contrario lo spazio non sarebbe risultato sufficiente a contenerli tutti. A mio giudizio perciò non si trattò nè di epidemia (leggi unica epidemia) ne tantomeno di morti in battaglia ( leggi unica battaglia).
Alla fine degli scavi fu costruita un ulteriore campata del cavalcavia per salvaguardare la tomba. Tante altre dopo essere state ben documentate furono reinterrate e finirono sotto i rilevati stradali.
Antonello Argiolas
Etichette:
Bronze-Age Collapse,
Capo de Basciu,
Giovanni Ugas,
Nuragici,
Prenuragico,
Rinvenimenti,
Scoperte,
siti archeologici,
Tombe
domenica 3 novembre 2013
Videointervista di Contusu.it sulla Tomba dei Giganti di Quartu S. Elena
Con grande piacere riproponiamo la scoperta della Tomba dei Giganti di Niu Crobu (ribattezzata poi "Sa Tumba Cuada de Niu Crobu" o più semplicemente "Niu Crobu Cuada") scoperta da Alessandro Atzeni e Sandro Garau nel comune di Quartu S. Elena. Tramite questa video intervista vorremmo sensibilizzare il pubblico, nonché il comune di Quartu dell'impellente necessità di attivare delle campagne di scavo presso i suoi monumenti più importanti (come questa tomba) e di attuare una valorizzazione efficace affinché i nostri monumenti Nuragici (ben 40) possano essere fruiti dal pubblico. I complimenti vanno sopratutto al sito di www.contusu.it e ai suoi mitici admin per la costanza con cui portano avanti la loro piattaforma web, uno dei migliori siti di informazione sulla storia, la cultura, le tradizioni e l'archeologia della Sardegna.
lunedì 28 ottobre 2013
Svelato il mistero del collasso dell'età del Bronzo?
Cosa successe 3.200 anni fa sulle rive orientali del
Mediterraneo?
"In pochissimo tempo, l'intero mondo dell'Età del
Bronzo crollò", racconta Israel Finkelstein, archeologo dell'Università di
Tel Aviv. "L'impero ittita, l'Egitto dei faraoni, la civiltà micenea in
Grecia, il regno di Cipro, celebre per la produzione del rame, la grande
città-mercato di Ugarit, sulla costa siriana, le città-Stato cananite, sotto
l'egemonia egiziana: tutte queste civiltà scomparvero, e solo dopo qualche
tempo furono rimpiazzate dai regni territoriali dell'Età del Ferro, come quelli
di Israele e di Giuda".
Il mistero fa discutere gli scienziati da decenni. Si è
pensato a guerre, pestilenze, disastri naturali improvvisi. Ora Finkelstein e i
suoi colleghi ritengono di aver trovato una soluzione studiando particelle di
polline estratti dai sedimenti estratti sul fondo del lago di Tiberiade (o mar
di Galilea). A mettere in crisi quelle civiltà fu la siccità, anzi una serie di
gravi periodi di siccità succedutisi nell'arco di 150 anni, tra il 1250 e il
1100 a.C. circa.
L'équipe ha preso in esame campioni di sedimenti depositati
sul fondo del lago nel corso degli ultimi 9.000 anni, ed estratti grazie a
carotaggi fino a 18 metri di profondità.
Le "impronte digitali" delle piante
"Ci siamo concentrati sull'intervallo di tempo tra il
3200 a.C. e il 500 a.C.", spiega Dafna Langgut, palinologa (ossia studiosa
di antichi pollini) dell'Università di Tel Aviv e autrice, assieme a
Finkelstein e al geologo dell'Università Thomas Litt, dello studio, pubblicato
questa settimana sulla rivista Tel Aviv: Journal of the Institute of
Archaeology of Tel Aviv University.
Studiando campioni di polline prelevati da strati di
sedimenti depositati a intervalli di un quarantina d'anni, gli scienziati sono
riusciti a ricostruire i cambiamenti avvenuti nella vegetazione. "I
granelli di polline sono le 'impronte digitali' delle piante", dice
Langgut. "Sono utilissimi per ricostruire le condizioni della vegetazione
e del clima nell'antichità".
Intorno al 1250 a.C., gli scienziati hanno notato un netto
calo della presenza di querce, pini e carrubi, la tradizionale flora del
Mediterraneo durante l'Età del Bronzo, e un aumento delle piante che si trovano
di solito in regioni semiaride. Si notava anche una grossa diminuzione degli
ulivi, segno di una crisi dell'agricoltura. Tutto insomma faceva pensare che la
regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate.
Carestie e tumulti
Gli anni fondamentali per il crollo, prosegue Finkelstein,
furono probabilmente quelli tra il 1185 e il 1130 a.C., ma si trattò di un
processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo. "Secondo me il
cambiamento climatico può essere considerato una sorta di scintilla che diede
il via a una serie di eventi a catena. Ad esempio, il crollo dei raccolti
costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in
cerca di cibo, magari scacciando altre comunità che a loro volta si spostarono
per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e
mise in crisi il delicato sistema commerciale del Mediterraneo orientale.
Le conclusioni raggiunte dagli scienziati, anche grazie alla
datazione al radiocarbonio, coincidono quasi alla perfezione con i pochi
resoconti storici del periodo, che appunto narrano di carestie, interruzioni
delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle
scarse risorse. La tarda Età del Bronzo fu anche il periodo in cui bande di
predoni, detti "Popoli del mare" cominciarono a razziare le coste
della regione.
La crisi finì solo con il ritorno delle piogge, quando le
comunità costrette al nomadismo dalla fame poterono tornare stanziali.
Articolo originale su www.nationalgeographic.it
venerdì 4 ottobre 2013
L'ossidiana del Monte Arci (Sardegna) sin in Spagna!
Seis peças
de obsidiana usadas por homens pré-históricos “viajaram” 1200 km há 6000 anos
LUSA 02/10/2013 - 15:12
Pedaços da rocha vulcânica, usada para fabricar ferramentas,
foram transportadas, no Neolítico, da ilha da Sardenha até Barcelona.
Resultados divulgados esta quarta-feira por uma equipa
investigadores do Conselho Superior de Investigações Científicas (CSIC)
espanhol revelam que seis peças de obsidiana – uma rocha vulcânica negra e
vidrada – encontradas em antigos túmulos na zona de Barcelona provêm, na
realidade, do maciço vulcânico de Monte Arci, na ilha de Sardenha.
“Trata-se da máxima distância documentada até à data no
transporte desta matéria-prima, uma rocha usada para elaborar ferramentas no
Mediterrâneo Ocidental, durante o Neolítico”, refere o CSIC em comunicado.
As seis peças analisadas -- cinco folhas e uma matriz, a
massa de matéria da que se extraíram as folhas -- teriam, segundo os
investigadores, mais relação com o prestígio social dos seus donos do que com o
fim para o que foram elaboradas, já que foram depositadas em túmulos
individuais.
“O estudo das impressões de desgaste dos restos demonstra a
sua utilização em actividades quotidianas, de modo que não se trata de
oferendas funerárias”, explicam ainda os investigadores. “No entanto, a rareza
desta matéria-prima no contexto geográfico estudado e a provável
inacessibilidade a estes produtos da maior parte da sociedade conferem-lhes uma
exclusividade específica”, explica Xavier Terradas, um dos autores do estudo
publicado no na revista Journal of Archaeological Science.
Os seis fragmentos analisados provêm de cinco túmulos
localizados na província de Barcelona: Can Tiana (Ripollet), Bòbila Madurell
(Sant Quirze do Vallès), Can Gambús (Sabadell), Minas de Gavà e La Serreta
(Villafranca de Penedès).
Os investigadores utilizaram fluorescência de raios X e uma
outra técnica, conhecida por A-ICP-MS (Laser Ablation Inductively Coupled
Plasma Mass Spectrometry), que permite analisar a ‘impressão digital’ química
da peça e compará-la com o seu local de origem. “Este tipo de vidro vulcânico
negro foi profusamente explorado durante o Neolítico. Os restos que analisámos
percorreram mais de 1200 quilómetros e foram transportados por terra para á dos
Pirenéus, já que é improvável uma navegação em mar aberto”, explica o
cientista.
Segundo o CSIC, estes grupos neolíticos chegaram a
participar em verdadeiras redes de intercâmbio de materiais, produtos e ideias
mediante a difusão de produtos locais, como os ornamentos corporais elaborados
com variscita das minas de Gavà ou o sal de Cardona (Barcelona). Ao mesmo
tempo, recebiam produtos de fora, como os elaborados com sílex de origem
provençal, machados de procedência alpina, ou artefactos talhados de obsidiana.
“Todos estes restos são singulares pela rareza das matérias
com as que foram elaborados, procedentes de locais situados a centenas de
quilómetros de distância e que provavelmente não estavam ao alcance de toda a
população”, diz aindaTerradas. “Fica claro que estamos perante uma série de
produções artesanais especializadas, com um objectivo claramente dirigido para
o intercâmbio, cujo alcance se manifesta ao longo de um vasto território
europeu”, conclui.
Os restos analisados no estudo serão expostos a partir de 18
de novembro na Residência dos Investigadores, em Barcelona.
martedì 21 maggio 2013
sabato 18 maggio 2013
domenica 28 aprile 2013
sabato 27 aprile 2013
Il Tempio di Giove a Bidonì
Il sito archeologico di Bidonì
Il Tempio di Giove, un'occasione persa
La Provincia di Oristano annovera una concentrazione di siti
archeologici di prima importanza, come il porto di Tharros e le terme di
Fordongianus. La romanizzazione del territorio ha lasciato tracce indelebili,
che ancor oggi si impongono all'attenzione di tutti nella loro maestosità. Si
aggiungano i siti archeologici pre-romani, come il nuraghe Losa o il pozzo
sacro di Santa Cristina. Con il mare, le risorse enogastronomiche e il folklore
(Sartiglia, Ardia, etc.) e con un adeguato sistema di trasporti, il patrimonio
archeologico locale potrebbe divenire il polo di attrazione di un'offerta
turistica di qualità.
Un esempio significativo è il tempio romano di Bidonì. Nei
pressi dell'Omodeo, sulle pendici del Monte Onnarìu, la Romanità ci ha lasciato
questo splendido esempio di architettura religiosa, probabilmente risalente al
I secolo a.C.
L'iscrizione "Iovis" sull'altare testimonia che il
tempio era dedicato a Giove, forse associato nella devozione popolare a
preesistenti divinità locali.
L'area, scoperta nel 1996 da Armando Saba di Allai e già
studiata da Raimondo Zucca, è ancora oggi chiusa al pubblico. La riapertura del
sito potrebbe contribuire alla riscoperta di un momento storico, quello
dell'incontro tra Romano-Italici e popolazioni autoctone, che è all'origine
dell'identità etnica e culturale del territorio. In più potrebbe favorire lo
sviluppo di una collaterale offerta alberghiera, enogastronomica e artigianale.
In un momento di crisi come quello attuale, la valorizzazione del tempio romano
di Bidonì è un'opportunità che le autorità statali e locali competenti devono
assolutamente cogliere per il rilancio culturale, economico e sociale dell'alto
Oristanese.
Articolo di Luca Cancelliere
Fonte: L'Unione Sarda", 21/04/2012
martedì 9 aprile 2013
L'oscura vicenda dei Giganti di Monte Prama
Ci sono in quei Giganti dei malanni un po' inquietanti...
Mercoledì, 31 ottobre 2012 - 10:36:00
di Fabio Isman
È raro trovare in un solo oggetto, o gruppo, la sintesi di
tanti tra i malanni che, da sempre, affliggono i beni culturali in Italia; ma i
Giganti sardi di Mont’e Prama ne racchiudono parecchi, e quindi servono da
esempio: costituiscono (anche) una cartina di tornasole. Iniziamo da che cosa
sono: forse, le più antiche sculture a tutto tondo nell’intero Mediterraneo,
dopo quelle egizie; potrebbero essere addirittura precedenti ai “kouroi” greci;
la loro nascita è misteriosa: c’è chi li data perfino al X-IX secolo a.C.,
quantunque probabilmente risalgano all’VIII. Sono un complesso senza pari,
anche per l’entità: ritrovati cinquemiladuecento frammenti, dieci tonnellate di
peso, che, ricomposti, hanno ridato vita (è il caso di dirlo) a venticinque
statue tra guerrieri, arcieri e pugili, in arenaria e alti circa due metri, con
alcuni modelli di nuraghe; recuperati quindici teste e ventidue busti. E ora,
continuiamo con il resto, partendo dal ritrovamento. Siamo verso Cabras, a
marzo 1974, vicino a Sinis (è sbagliato, siamo propriamente nel Sinis) ; arando un terreno, i contadini Sisinnio Poddi e
Battista Meli urtano in qualcosa di strano. Spaventati, danno l’allarme.
Intervengono i massimi archeologi sardi, Enrico Atzeni e Giovanni Lilliu (un
Guerriero è perfino la copertina del suo libro La civiltà nuragica, 1982): la
scoperta parte da qui. Ma i contadini aspettano ancora il premio di
rinvenimento. Il primo malanno è la dimenticanza dei secoli; il secondo, quella
delle istituzioni; e poi, c’è l’incuria. Ogni anno i frammenti venivano
accantonati; e ogni anno, ci si accorgeva che il mucchio era più esiguo: forse
qualcuno portava via le pietre, magari per usarle come materiale da
costruzione.
Vengono subito organizzate campagne di scavo tra il 1975 e
il 1979; le ultime, dirette da Carlo Tronchetti. Il bendiddio che, si è detto,
era vicino a trentatre tombe a pozzetto affiancate, senza corredi funerari
tranne un misterioso scarabeo egizio. I reperti sono trasportati al museo di
Cagliari; e lì giaceranno per trentadue anni (è il secondo malanno),
incredibilmente dimenticati. La maggiore scoperta sarda (e non solo) del
dopoguerra è rimossa, nascosta, per nulla accudita: appena poche parti esposte
nel museo del capoluogo, o prestate a qualche mostra. Se ne riparla finalmente
nel 2007: a Sassari, al centro regionale di Li Punti, iniziano quattro anni di
difficile, coraggioso, mirabolante restauro. Le opere, ricomposte, dal novembre
2011 vi sono esposte per la prima volta nella loro interezza. Chi le vuole del
VII secolo a.C., chi le crede precedenti; chi le immagina in un santuario, chi
le pensa dei giganti a guardia di una tomba principesca, mai trovata; intere, o
in frammenti, decine di statue che restano misteriose, in un luogo, da sempre,
tra i più densi di storia e di passato di tutta l’isola. Mont’e Prama significa
monte Palma: monte anche se il rilievo è di cinquanta metri; la palma è quella
nana, un tempo tipica della zona. Non lontano, è stato ipotizzato un santuario,
un “heroon” dell’VIII secolo a.C., luogo funebre dedicato agli eroi; e la
penisola del Sinis, su cui è prosperata la fenicia Tharros, è vicinissima, già
abitata seimila anni or sono. Era un’importante area economica e commerciale,
testa di ponte verso la penisola iberica: milletrecento anni avanti Cristo vi
approdano i micenei e i filistei; è un grande centro della civiltà nuragica,
iniziata tra il 1600 e il 1200 a.C., e certamente terminata prima del 700 a.C.:
centosei monumenti di questo tipo nei dintorni, uno per chilometro quadrato,
«sessantadue monotorre, trentasei più complessi, otto non definiti», dice l’ex
soprintendente di Cagliari, Vincenzo Santoni. Per alcuni, i Giganti si possono
identificare con i mitici Sherden, “popolo del mare” di allora, in qualche modo
collegabili a uno tra i miti della fondazione dell’isola, colonizzata da Iolao
con cinquanta Tespiadi: con un tempio in suo onore, di cui tante fonti parlano,
dallo Pseudo-Aristotele, a Diodoro Siculo, Pausania e Silio Italico.
Nelle tombe, c’erano resti maschili e femminili, dai tredici
ai cinquant’anni, una sepoltura per pozzetto. I Giganti sono successivi alle
inumazioni. Hanno sopracciglia e naso assai marcati, sul viso triangolare; i
grandi occhi sono due cerchi concentrici incisi; le bocche delle fessure,
talora ad angolo. Sono tutti in piedi, con le gambe leggermente divaricate;
poggiano su basi quadrangolari. Sul corpo hanno motivi geometrici incisi: linee
parallele e a zig zag, cerchi concentrici; le trecce a rilievo, con motivi a
spina di pesce. Forse, erano dipinti: un arciere reca ancora tracce di rosso.
Ardui i confronti: li dice orientalizzanti Tronchetti, e nota richiami
all’Etruria arcaica; Lilliu sottolinea i parallelismi con i bronzetti sardi;
altri si spinge fino ai piceni e ai dauni. Che siano semplicemente un unicum,
un “hapax” senza emuli noti? I pugili hanno uno strumento di difesa, che
avvolgeva l’avambraccio; sono evidenziati ombelico e capezzoli, e portano un
gonnellino: giochi sacri in onore del defunto? È il braccio destro a essere
rivestito da una guaina; il sinistro è alzato e tiene alto uno scudo. Ci sono
più varianti nei cinque arcieri ricostruiti: tunica corta e placca pettorale
quadrangolare; gambali; arma imbracciata; faretra sulle spalle; almeno uno, ha
un fodero di spada. Due i guerrieri con scudo tondo (ma ci sono altri pezzi di
rotelle); l’elmo, cornuto, è talora zoomorfo. Cinque infine i modelli di
nuraghi complessi, costituiti da più elementi, e venti quelli semplici; se ne
vedono i terrazzi, sulle torri una cupola conica, sono alti fino a un metro e
mezzo. Scavati pure dei “betili” (dall’ebraico “casa del dio”), pietre sacre
prive di raffigurazioni, se non per quelle di porte e spesso due finestre
incavate: Lilliu ci vedeva gli occhi di una divinità a protezione della tomba.
Era un messaggio intimidatorio rivolto ai fenici, sbarcati sulla costa nell’VIII
secolo? Qualcuno, però, crede di riconoscere mani orientali nella bottega
scultorea.
Come avete capito, i Giganti di Mont’e Prama devono
rispondere ancora a infinite domande: «La ricerca archeologica sul sito che ha
restituito le statue ha da percorrere un lungo e appassionante cammino», dice
il rettore dell’Università di Sassari, Attilio Mastino. Ma che costituiscano un
complesso fondamentale, non c’è dubbio: anche il soprintendente di Cagliari,
Marco Minoja, spiega: «Statue e sepolcri sembrano parti di un unico programma,
teso a esaltare la grandezza e la potenza di un’aristocrazia in armi». E
l’archeologo Marcello Madau: «Mont’e Prama e i suoi “kolossoi” sono un episodio
chiave della storia dell’arte mondiale»; cinquemila pezzi, scaricati in età
antica e probabilmente punica da chi distrusse il santuario, sopra una
necropoli nuragica; «in quel periodo, i cartaginesi intervengono drasticamente
sulla fenicia Tharros, dissacrandone i segni: ne diedi notizia nel 1991, dopo
una scavo nell’area del “tofet”, il santuario». La discarica, certifica
Tronchetti dai dati dei suoi scavi, non è avvenuta prima del finire del IV
secolo a.C.: «Lo dice un frammento di anfora punica rinvenuto sotto un torso di
statua». Restaurare non è stato semplice: i frammenti distesi su quattrocento
metri quadrati; la pulitura; la ricerca degli attacchi; il modo per rimetterle
in piedi. Alcune statue sono sufficientemente complete per capire; in altre,
soccorre la ripetitività. Il Pugilatore è analogo a un bronzetto ritrovato verso
Dorgali: Mont’e Prama ne ha restituiti sedici, con il loro scudo ricurvo
rettangolare poggiato sulla testa; anche le loro parti inferiori del corpo sono
scolpite in modo essenziale, e assai più dettagliata è invece la parte
superiore. Più complessi i cinque Arcieri; forse, i tipi di arco sono due, il
più grande poggiato su una spalla; la mano sinistra è rivestita da uno spesso
guanto. Il più raffinato è il Guerriero, armato di uno scudo rotondo: alcuni
elementi, in un primo tempo, erano stati attribuiti ad altre tipologie di
Giganti. Ci sono poi i modelli di nuraghe; in tutta l’isola, Mont’e Prama è il
contesto che ne ha restituiti di più: fino a cinquanta porzioni delle parti
sommitali, parapetti, terrazze, torri; alcuni hanno un diametro di sessanta centimetri.
Ma ora si vuole separare questo “unicum”, ed è il penultimo
tra i malanni che lo affliggono. Si prevede di esporre un nuraghe e una statua
per tipo a Cagliari; il resto, vicino al sito del ritrovamento; a Li Punti,
invece, la documentazione del restauro. A Cabras, però, il museo che dovrebbe
ospitarli – ed ecco l’ultimo malanno – ancora non esiste. Per ora, dopo
l’esposizione a Sassari, i Giganti sono tornati invisibili: sono in un
laboratorio, per i rilievi fotogrammetrici, le scansioni digitali da cui
trarre, magari, copie od olografie. Ma poi, dove finiranno? Parte, si è deciso,
a Cagliari; ma il resto, di nuovo in un deposito, magari per altri trent’anni?
Non solo: anche questa “diaspora” genera inquietudine e proteste. Un appello
con mille firme autorevoli, a cominciare dall’archeologo Mario Torelli, è sul
tavolo del ministro Ornaghi; Salvatore Settis ritiene «che il gruppo,
decisamente, non debba essere smembrato», anche perché «la moltiplicazione
delle sedi museali è tra le ragioni per cui i musei in tutto il mondo,
diventati troppi, cominciano a chiudere, senza molti vantaggi né per le opere
né per gli utenti». «Chiediamo di destinare, per le esigenze proprie di un
museo come quello nazionale di Cagliari, copie a regola d’arte: di tutto il
complesso», dice l’appello; intanto, l’unica certezza è che una rappresentanza
dei Giganti stava per partire per le Olimpiadi di Londra e l’Esposizione
universale in Corea: all’ultimo, per fortuna, non è accaduto, perché, si sa, i
capolavori italiani viaggiano, addirittura troppo. Qualcuno raccoglierà il
grido di dolore, o, una volta di più, le esigenze dello spettacolo trionferanno
su quelle scientifiche?
Tratto dal numero di novembre della rivista Art e Dossier
Etichette:
Monti Prama,
Nuragici,
Punici,
Rinvenimenti,
Shardana,
Statuaria,
Tombe,
Tombe dei Giganti. Scoperte
martedì 5 marzo 2013
venerdì 22 febbraio 2013
I Ballatoi dei Nuraghi secondo Pittau
Ballatoi terminali e modellini di nuraghi mai esistiti
Creato il 17 febbraio 2013 da Rosebudgiornalismo
di Massimo Pittau. Nel quadro generale di assurdità e di ridicolaggini relative alla civiltà nuragica tracciato da alcuni archeologi, ad iniziare da Antonio Taramelli fino a qualcuno vivente – quadro che è perfino offensivo per la intelligenza di noi Sardi – entrano anche la storiella del «ballatoio o terrazzino terminale» che avrebbero avuto i nuraghi e la storiella dei «modellini di nuraghi». Purtroppo non c’è opera o studio, sia che aspiri ad essere scientifico sia che abbia un intento di divulgazione, che non presenti i nuraghi col ballatoio terminale, come quello delle torri medioevali e post-medioevali. Ed invece questi “ballatoi” e quei “modellini” non esistono affatto e non sono esistiti mai.
I supposti “ballatoi”
L’archeologo che ha scavato il Nuraxi di Barumini ha ritenuto di poter affermare l’esistenza del ballatoio terminale nel grande nuraghe in base al ritrovamento, non in situ, ma sparsi nel terreno, di lunghi massi che egli ha considerato “mensoloni”, i quali appunto avrebbero sostenuto il “ballatoio” terminale dell’imponente edificio.
Egli ha pure disegnato quella che sarebbe stata la posizione originaria di quei mensoloni, ma purtroppo in una maniera tale che è chiaramente contraria alle leggi della statica. Sul piano funzionale egli ha sostenuto che il ballatoio serviva ai guerrieri assediati nella supposta grande fortezza, a far sì che i massi scaraventati sui nemici cadessero a perpendicolo su di essi (quasi che rimbalzando sulla muraglia inclinata non potessero essere altrettanto dannosi!).
Senonché nessun nuraghe ha mai avuto un “terrazzino o ballatoio terminale”, per il fatto essenziale che lo impediva la tecnica costruttiva di allora, fondata sull’uso esclusivo della “pietra”, per di più senza l’uso di alcuna malta.
Si deve considerare che la costruzione dei ballatoi terminali degli antichi campanili, torri e castelli è stata possibile solamente dopo l’uso di mattoni cotti, cementati da malte molto resistenti. Però nessuno studioso ha mai affermato e tanto meno dimostrato che i nuraghi avessero sulla cima ballatoi costruiti con mattoni e cementati con una qualsiasi malta.
Questa “favola” dei ballatoi terminali dei nuraghi, messa in bella mostra dai cartelloni esplicativi di nuraghi monumentali e dei nostri musei e dai pieghevoli pubblicitari ad uso dei turisti, è partita – come dicevo poco fa – dal ritrovamento, ai piedi prima del Nuraxi di Barumini e dopo di numerosi altri nuraghi, di “mensoloni” che avrebbero per l’appunto avuto la funzione di sorreggere quei “ballatoi”.
Io però avevo pubblicato, già nel 1970 e poi di recente nel 2006, le fotografie di mensoloni situati ancora in situ, sulla cima dei Tresnurachesdi Nùoro e del nuraghe Albucciu di Arzachena, i quali risultano separati l’uno dall’altro e intervallati, in una posizione che non ha alcuna funzionalità pratica, mentre mostra di averne una semplicemente decorativa, esattamente come fanno i mensoloni che si trovano sulla cima delle torri dell’Elefante e di san Pancrazio di Cagliari e del Castello dei Malaspina di Bosa (M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 64, 65; M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Sassari 2009, II ediz., EDES, pag. 16).
A questi esempi sono oggi in grado di aggiungere le fotografie di un nuraghe dei monti di Baunei, che mi sono state fornite da un mio amico del luogo:
Insomma i mensoloni terminali dei nuraghi in effetti determinavano e costituivano una “corona radiata” con funzione decorativa dell’edificio. Ma oltre che funzione decorativa i mensoloni del Nuraxi di Barumini e di altri numerosi nuraghi potevano forse avere una funzione simbolico-religiosa, indicante i raggi del Sole, divinità che indubbiamente anche i Nuragici adoravano.
I supposti “modellini di nuraghe”
Dei “modellini di nuraghe” per il vero si faceva un gran parlare da molto tempo, ma il loro entrare prepotente nelle discussioni è venuto dopo che – finalmente – sono stati effettuati un po’ di scavi nel sito dove sono stati trovati gli ormai famosi Guerrieri di Monti Prama. Uno degli archeologi che hanno effettuato gli scavi ha ritenuto di aver trovati ben 8 modelli di “nuraghi complessi” e poi altri 13 modellini di “nuraghi singoli”. Per il vero egli ha manifestato una notevole difficoltà quando ha tentato di metter su una spiegazione di questi troppo numerosi “modelli e modellini di nuraghi”, ma soprattutto è caduto nell’errore di interpretare un elemento conico che sta sulla cima di questi “modellini” come «la copertura della scala di accesso al terrazzo superiore».
Ma di che materiale sarebbe stata fatta questa “copertura della scala”? forse di plexi-glas? E quale riscontro archeologico è stato mai trovato per essa? Perché quell’elemento conico o cupoletta risulta al centro della cima del “modellino” e non decentrata, come decentrata risulta essere sempre la scala di tutti i nuraghi?
In realtà i supposti 8 modelli di nuraghi complessi non sono altro – come è stato giustamente detto da un altro archeologo – che “basi di colonne” e “capitelli” del tempio ivi esistente.
E nemmeno le altre 13 statuette, alte una trentina di centimetri, sono “modellini di nuraghe”, I) perché risultano troppo alte e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alte come sono avrebbero dovuto avere anche un segno di qualche finestrone, come di fatto si constata in alcuni nuraghi piuttosto alti.
In realtà le 13 statuette di Monti Prama non sono altro che miniature di “lucerne” o di “candelabri”, la cui cupoletta finale indica la fiamma accesa.
Si deve considerare con attenzione che la presenza di lucerne ocandelabri in miniatura nel sito di Monti Prama ha una sua esatta motivazione nel fatto che erano in un sito sacrale e precisamente in un tempio dedicato al Sardus Pater. Invece eventuali “modellini di nuraghe” quale mai motivazione potevano avere nel tempio e, più in generale, in qualsiasi altro sito? Che senso aveva e quale spiegazione aveva la fabbricazione di molti “modellini di nuraghe” in generale? Nella sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di Alghero la presenza di un altare a forma di coppa o calice ha un senso in vista delle importanti decisioni politico-religiose che vi si prendevano, mentre la presenza di un “grande modello di nuraghe” – come è stato comicamente detto e scritto – non ha alcun senso né alcuna spiegazione.
E pure grandemente errata è la spiegazione che è stata data e corre in giro del cosiddetto “Modellino di Olmedo”. Questo non era affatto il modellino in bronzo di un nuraghe quadrilobato, I) perché i suoi 5 bracci risultano troppo alti e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno, in quella che dovrebbe essere la lunga cerchia muraria, per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alti come sono i 5 bracci e soprattutto quello centrale avrebbero dovuto avere anche il segno di qualche finestrone nella loro muraglia e invece non ne hanno alcuno.
E le stesse identiche obiezioni muovo per il bronzetto di Ittireddu, anch’esso erroneamente interpretato come “modellino di nuraghe”.
Invece, a mio giudizio, anche quelli di Olmedo e di Ittireddu non sono altro che il modellino di una lucerna, una “lucerna plurima” a 5 bracci o becchi, analoga ad una plurima di terracotta che è stata trovata a Sant’Antioco. Ed anche a questo proposito vale la importante considerazione or ora fatta: nelle caratteristiche di sacralità che valeva per tutti i bronzetti nuragici – dato che costituivano tutti altrettanti doni fatti alle varie divinità – la riproduzione di una lucerna plurima si spiega perfettamente, la riproduzione di un nuraghe plurimo o polilobato non trova alcuna spiegazione.
È verosimile che queste due lucerne plurime implichino anche una “simbologia cosmica”, come ha scritto il mio amico architetto Franco Laner: i bracci dei quattro spigoli rappresenterebbero i quattro punti cardinali, mentre il braccio centrale rappresenterebbe la dimensione verticale dell’alto e del basso.
In proposito è da ricordare che questa medesima simbologia probabilmente esisteva anche nella cosiddetta “Tomba di Porsenna” di Chiusi, in Etruria.
La “favola” del ballatoio terminale dei nuraghi è entrata anche nella fabbricazione del cosiddetto “modellino di nuraghe quadrilobato di San Sperate”, in pietra arenaria giallo-rosa, esposto in bella evidenza nel Museo di Cagliari, che io di recente ho dimostrato essere nient’altro che un grossolano ed anche ridicolo “falso”. Che di falso si tratti, scolpito da qualcuno che quasi certamente si potrebbe riconoscere dalle carte che riguardano l’acquisizione dell’oggetto da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari, è dimostrato chiaramente da alcuni fatti, ma soprattutto da due particolari: I) Il supposto modello di nuraghe presenta un “porticato” che costituirebbe la base dell’edificio; 2) Il muro dei quattro torrioni presenta nella sua parte finale una “rientranza circolare”. Senonché si tratta di due particolari costruttivi che da un lato non si ritrovano in nessun nuraghe reale, dall’altro avrebbero impedito la prosecuzione della costruzione del nuraghe stesso, il quale sarebbe crollato subito, con la messa in opera dei successivi cerchi di massi.
Infine l’oggetto sembra appena uscito dall’officina di uno scultore (e ben a ragione!), dato che presenta molti spigoli della pietra ancora vivi ed intatti.
Fonte immagini a corredo dell’articolo, Massimo Pittau.
Tratto da PaperBlog
http://it.paperblog.com/ballatoi-terminali-e-modellini-di-nuraghi-mai-esistiti-1650328/
lunedì 28 gennaio 2013
I cereali nell'evoluzione del cane
Quando l'agricoltura trasformò il lupo in cane
Il confronto fra il genoma dei due animali ha messo in luce
che i cambiamenti comportamentali sono andati di pari passo con quelli del
metabolismo degli amidi: durante il lungo periodo di introduzione dell'agricoltura,
le discariche di rifiuti degli insediamenti umani divennero una risorsa per i
lupi che vivevano nei dintorni, favorendo la selezione di geni utili sia per un
uso efficiente degli amidi sia per un comportamento più compatibile con la vita
insieme agli esseri umani
La nascita dell'agricoltura non è stata un momento cruciale
soltanto per l'umanità, ma anche per l'evoluzione del lupo in cane domestico. A
testimoniarlo sono alcune regioni genetiche, ora identificate da un gruppo di
ricercatori dell'Università di Uppsala, che sarebbero alla base di cambiamenti
comportamentali e adattamenti cruciali.
Come si legge in un articolo pubblicato su “Nature”, Åke
Hedhammar, Kerstin Lindblad-Toh e collaboratori hanno dimostrato che durante il
processo di domesticazione è avvenuta un'evoluzione parallela di geni che
modulano il comportamento e di geni che hanno un ruolo chiave nella digestione
degli amidi.
I ricercatori hanno ri-sequenziato e confrontato l'intero
genoma del cane domestico e del lupo, identificando 3.800.000 varianti
genetiche grazie a cui sono riusciti a a isolare 36 regioni genetiche che
risultano essere state sottoposte a una lunga pressione selettiva. Diciannove
di queste regioni contengono geni importanti per le funzioni cerebralI: in
particolare, otto di questi geni riguardano
percorsi di sviluppo del sistema nervoso correlabili a cambiamenti del
comportamento essenziali per una vita assieme all'uomo. Chiari segni di
selezione riguardano anche dieci geni che presiedono al metabolismo dei grassi
e, soprattutto, alla digestione degli amidi.
Allo stato attuale – osservano i ricercatori - non è ancora
chiaro come e perché i cani siano stati addomesticati. Può darsi che l'uomo
abbia catturato e allevato cuccioli di lupo per sfruttarli per fare la guardia
o per cacciare, selezionandone poi i caratteri più utili per questi nuovi
ruoli. Ma è anche possibile - e i risultati di Hedhammar e colleghi sembrano
suggerirlo – che la forza trainante del processo di domesticazione sia stato
uncambiamento della nicchia ecologica occupata da alcuni gruppi di lupi durante
il periodo in cui l'essere umano stava passando da uno stile di vita nomade a
uno sedentario, all'alba della rivoluzione agricola.
I lupi potrebbero essere stati attratti dalle discariche
vicine ai primi insediamenti umani – come accade oggi nelle aree antropizzate
dei parchi naturali - e la selezione naturale può aver favorito i tratti che
consentivano un uso efficiente della nuova risorsa ricca di amidi, innescando
l'evoluzione di lupi “spazzini”, dai quali si sarebbero discesi i cani moderni.
I più antichi resti fossili di un cane sicuramente vissuto con l'uomo sono
stati ritrovati insieme a resti umani in una tomba della cultura natufiana, in
Israele, e risalgono a 11.000-12.000 anni fa circa.
Articolo preso da “Le scienze”:
http://www.lescienze.it/news/2013/01/23/news/cane_domesticazione_lupo_geni_metabolsimo_amidi-1472118/
Articolo originale su Nature:
http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature11837.html
lunedì 24 dicembre 2012
Le spirali di Newgrange
Newgrange: il più grande e antico orologio solare del mondo.
Che significato hanno le incisioni a spirale tracciate sulla roccia?
La più bella tomba a corridoio d'Europa si apre verso
sudest, in perfetto allineamento col punto in cui sorge il sole nel solstizio
d'inverno. Accanto al fiume Boyne, in Irlanda, nel punto in cui le acque
compiono un'ampia curva, un cimitero preistorico accoglie più di 25 tombe a
corridoio.
Nota come 'Bend of the Boyne' (Ansa del Boyne), la necropoli
dà l'impressione di essere stata costruita sulla collina in modo che le tre
sepolture più belle - Newgrange, Knowth e Dowth - possano dominare la fertile
vallata sottostante.
La tomba a corridoio di Newgrange è il più interessante sito
preistorico irlandese: è infatti decorata da rilievi rocciosi di insigne
fattura. Si pone però una domanda: Newgrange era solo un sepolcro o aveva
qualche altra funzione? La tomba, saccheggiata e in rovina, fu riscoperta nel
1699, e l'antiquario gallese Edward Lhuyd (1660-1708) fu uno dei primi ad
entrarvi.
Egli scrisse: "In un primo momento fummo costretti ad
avanzare carponi, ma via via che proseguivamo i pilastri ai due lati diventavano
sempre più alti, ed accedendo alla sala sotterranea scoprimmo che era alta una
ventina di piedi. Nella sala, a destra e a sinistra, vi erano due celle o
camere, e una terza si estendeva in direzione dell'entrata".
Il corridoio attraverso cui Lhuyd passò è lungo più di 18
metri e termina in tre stanzette contenenti tre vasche in pietra massiccia. Le
pietre che compongono l'alto tetto a modiglioni sono perfettamente bilanciate e
ben salde pur in assenza di malta. In 5000 anni solo due di esse si sono rotte.
Una simile perfezione progettuale ed esecutiva dimostra come i costruttori di
Newgrange, vissuti verso il 3250 a.C., possedessero una straordinaria perizia.
Il santuario interno della tomba a corridoio è illuminato
dai raggi del sole solo nei giorni prossimi al solstizio d'inverno. Ogni
mattina, per una ventina di minuti, nei pochi giorni che precedono e seguono il
giorno più breve deiranno, un sottile raggio penetra nel vano del tetto sopra
l'entrata e tocca la vasca di pietra situata in fondo al corridoio.
All'interno del tumulo c'è una camera a forma di croce,
terminante in tre nicchie con grandi vasche di pietra. Il tetto a modiglioni,
di brillante concezione costruttiva, si innalza a 6 metri e culmina in un punto
che sovrasta le nicchie. Molte pietre interne mostrano la stessa varietà di
incisioni simboliche delle esterne.
La tomba a corridoio di Newgrange era originariamente
coperta da un enorme tumulo ovale alto 14 metri (oggi ridotti a 9) con un
diametro di 76 metri. Estesa su più di mezzo ettaro, la collina artificiale era
costituita da circa 200.000 ciottoli tolti dal letto del vicino fiume e
rivestiti di lucente quarzo bianco. Lungo il perimetro esterno del tumulo
giacciono adagiate sul fianco 97 pietre di confine. Attorno alla tomba sorge un
cerchio di pietre erette; 12 dei 35 massi originari sono tuttora visibili.
Lo sguardo del visitatore attento è attratto a Newgrange da
una profusione di belle incisioni nella roccia. L'entrata è sorvegliata da una
pietra percorsa da spirali e nel corridoio più di una dozzina di massi eretti
sono decorati. Anche molti lastroni e modiglioni del tetto presentano sculture,
talvolta sul lato superiore, nascosto.
All'interno, nella parte bassa di uno dei montanti,
scopriamo l'incisione più bella, una tripla spirale. All'esterno, molte delle
pietre di confine sono ornate, qualche volta sulle superfici interne nascoste
alla vista. Oltre alle spirali, altri motivi molto comuni ricorrenti a
Newgrange sono le losanghe, le linee a zig-zag e i cerchi. Ma stranamente essi
non coincidono con i simboli più usati in altre tombe a corridoio irlandesi.
Qual è allora il loro significato?
Le spirali rappresentano forse il viaggio labirintico
dell'anima verso il regno dei morti. L'apertura praticata nel vano del tetto
sovrastante l'entrata consente il passaggio della luce del sole solo nella
mattina dei giorni vicini al solstizio d'inverno.
I primi antiquari non si curarono troppo di queste
decorazioni. Thomas Molyneux, un professore di fisica del XVIII secolo che
insegnava al Trinity College di Dublino, le definì 'incisioni di tipo barbaro',
e molti dopo di lui le credettero semplici ornamenti. Più di recente, sono
stati compiuti seri sforzi per scoprire il significato che si cela dietro gli
effetti decorativi.
Un ricercatore di spicco nel settore è Martin Brennan, il
cui libro La visione della valle del Boyne è un'analisi delle oltre 700 pietre
scolpite del luogo. A conclusione del suo studio, l'autore afferma che la
maggioranza dei disegni registrano osservazioni astronomiche e cosmologiche e
che Newgrange fu, oltre il resto, il più grande e antico orologio solare del
mondo. "Per la popolazione della valle del Boyne", scrive Brennan,
"lo studio dei movimenti del sole era importantissimo. Essi erano i più
esperti lettori di meridiana del Neolitico".
La sete di sapere non era l'unica motivazione degli uomini
che costruirono le strutture di Newgrange e Stonehenge, dove pure venivano
compiute osservazioni astronomiche. Forse essi miravano anche ad apprendere
nuove nozioni sull'universo e a stabilire collegamenti diretti e significativi
fra esso e le loro vite. Newgrange non è soltanto un orologio solare o un
osservatorio, ma sembra essere un simbolo della stessa forza vitale.
Nella sua forma originaria, il tumulo che copriva la tomba a
corridoio era ovale, e in quest'uovo portatore di vita penetrava un lungo
corridoio terminante in una camera a caverna, che simboleggiava forse il ventre
materno. All'interno sorge un alto pilastro a forma di fallo, ed è possibile
che le due palle di gesso ritrovate a Newgrange fossero simboli sessuali
maschili.
I raggi del sole nel solstizio d'inverno
Newgrange fu costruita per trarre beneficio dall'elemento
dispensatore di vita per eccellenza, il sole. Sopra l'entrata, che in origine
era sigillata da una lastra di pietra, si trova una piccola cavità il cui tetto
reca incisioni a doppie spirali e losanghe. Il vano era provvisto di porte di
pietra che potevano essere aperte e chiuse.
La struttura è orientata in modo che all'alba del solstizio
d'inverno il sole, sorgendo, illumini la tomba attraverso questo vano - la
porta veniva in quel giorno appositamente aperta. Il raggio di sole penetra
lungo il corridoio, fino a raggiungere il centro della camera.
Michael O'Kelly, professore di archeologia presso la Cork
University, ha compiuto di recente degli scavi a Newgrange e il 21 dicembre
1969, all'alba, si trovava nella tomba pronto ad assistere a quanto sarebbe
successo. "Esattamente alle 9 e 54 dell'ora legale britannica",
scrisse, "il margine superiore della sfera solare apparve sull'orizzonte
locale, e alle 9 e 58 il primo raggio di sole diretto brillò attraverso il vano
del tetto e lungo il corridoio per giungere a sfiorare, toccando il pavimento
della camera tombale, il bordo frontale della vasca di pietra dell'ultima
stanza.
Man mano che la sottile riga di luce si allargava, fino a
diventare una fascia larga 17 cm che spazzava il pavimento della camera, la
tomba fu investita da un violento fiotto luminoso e la luce riflessa dal
pavimento fece chiaramente risaltare vari particolari delle camere laterali e
terminale e del tetto a modiglioni. Alle 10 e 04 la fascia cominciò di nuovo a
restringersi e alle 10 e 15 in punto il raggio diretto lasciò la tomba".
Il solstizio d'inverno è il giorno più breve dell'anno, il
momento in cui la forza vitale ricomincia a infondere vita alla terra
addormentata. Forse, fra tutte le incisioni, è la tripla spirale della camera a
rappresentare ciò che i costruttori di Newgrange si sforzavano di raggiungere
con quella che impropriamente viene chiamata 'tomba': è possibile che la
spirale entrante simboleggiasse il viaggio intrapreso dal defunto e l'uscente
ne illustrasse la rinascita.
Può darsi che, a Newgrange, avesse luogo la fecondazione
simbolica dell'uovo cosmico capace di assicurare la continuazione del ciclo
eterno della morte e della rinascita. Probabilmente i sacerdoti depositavano i
resti cremati di alcuni antenati nelle vasche di pietra delle camere, dove essi
potevano essere toccati dalla luce del sole a metà inverno, ottenendo così una
conferma simbolica della prosecuzione della stirpe.
Newgrange è solo un elemento del complesso di Bend of thè
Boyne, anche se artisticamente è il più compiuto. Forse le tombe principali
costituiscono nel loro insieme delle registrazioni scientifiche che solo ora,
5000 anni dopo, cominciano a essere decifrate. I reperti dimostrano un'altra
volta che l'uomo preistorico non era né semplice né barbaro, bensì in possesso
di conoscenze e capacità che superano di gran lunga la nostra immaginazione.
Fonte:
http://ilnavigatorecurioso.myblog.it/archive/2012/05/03/newgrange-il-piu-grande-e-antico-orologio-solare-del-mondo.html
Etichette:
Archeoastronomia,
Irlanda,
Spirali,
Tombe,
Turismo Archeologico
lunedì 8 ottobre 2012
Convegno “700-1100 d.C. Storia, archeologia e arte nei ‘secoli bui’ del Mediterraneo".
Il convegno “700-1100 d.C.: storia, archeologia e arte nei
‘secoli bui’ del Mediterraneo". Dalle fonti scritte, archeologiche ed artistiche
alla ricostruzione della vicenda storica: la Sardegna laboratorio di esperienze
culturali.”, che si svolgerà a Cagliari presso la Cittadella dei Musei, nell’aula
“Roberto Coroneo”, tra il 17 e 19 Ottobre 2012, rappresenta il momento
conclusivo dell’omonimo progetto di ricerca promosso dall’Università di
Cagliari con la collaborazione dell’Università di Sassari e della
Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Cagliari e Oristano.
Il progetto, finanziato nell’ambito della Legge Regionale 7
agosto 2007, n. 7: “Promozione della ricerca scientifica e dell’innovazione
tecnologica in Sardegna”, si proponeva di fare luce sul periodo storico
compreso tra il secolo VIII e gli inizi del XII d.C. attraverso l’analisi di
fonti archivistiche, archeologiche ed artistiche.
Il periodo storico trattato, a discapito della carenza di
informazioni lamentata dagli studiosi, è di grande importanza per la storia
dell’Europa e del Mediterraneo: si affacciano nuovi protagonisti che modificano
gli equilibri politici ed economici. Nell’XI secolo i documenti attestano per
la Sardegna il compimento di un nuovo assetto istituzionale, quello della
quadripartizione in giudicati, rispetto al quale la mancanza di sufficienti
informazioni storiche ha fatto proliferare varie ipotesi, qualche volta
fantasiose.
Nei 44 interventi in programma si affronteranno i problemi
storici relativi sia al ruolo della Sardegna nell’impero bizantino, sia al
rapporto dell’isola con il Papato, con gli ordini monastici emergenti, l’Europa
carolingia e il mondo islamico. Si darà conto inoltre dei recenti studi sui
centri urbani e delle sedi del potere giudicale, ma anche dell’assetto del
territorio e degli indicatori cronologici e socio-economici della cultura
materiale, per giungere infine alla sfera ecclesiastica, nel tentativo di
inquadrare storicamente la chiesa sarda e conoscerne infine l’architettura
delle chiese, i monasteri e il culto dei santi.
Questo il programma del convegno:
MERCOLEDI 17 OTTOBRE 2012
Ore 10
Saluti delle Autorità
G. MELIS, Rettore dell’Università degli Studi di Cagliari.
M. ZEDDA, Sindaco di Cagliari.
E. PUGGIONI, Assessore alla Cultura del Comune di Cagliari.
S. MILIA, Assessore alla Pubblica Istruzione, Beni
Culturali, Informazione, Spettacoli e Sport della Regione Autonoma della
Sardegna.
R. SERRA, Direttore del Servizio Beni Culturali della
Regione Autonoma della Sardegna.
G. PAULIS, Preside della Facoltà di Studi Umanistici.
F. ATZENI, Direttore del Dipartimento di Storia, Beni
Culturali e Territorio.
M.E. MINOJA, Soprintendente per i Beni Archeologici delle
province di Cagliari e Oristano e delle province di Sassari e Nuoro, Ruolo e
attività delle Soprintendenze in un progetto di ricerca.
Il progetto
1. R.
MARTORELLI, I “secoli bui” della Sardegna: problematiche, metodi e filoni
d’indagine da una storiografia consolidata e aspettative dal nuovo progetto.
Ore 15
Il ruolo della Sardegna nell’impero bizantino: aspetti e problemi
1. O.
SCHENA, Aspetti e problemi storici della Sardegna nel Mediterraneo bizantino
fra VIII e XI secolo.
2. M. ORRÙ,
Teofilatto d'Acrida, gli errori dei Latini e la Sardegna.
3. L.
GALLINARI, Aspetti e problemi delle fonti arabe relative alla Sardegna.
4. G.
SERRELI, Il passaggio all'età giudicale: il caso di Càlari
5. C. TASCA,
I documenti giudicali negli archivi italiani e stranieri.
6. M. GARAU,
I documenti giudicali conservati in Sardegna.
7. D.
MUREDDU, M. G. MESSINA, La ricerca storica: l’apporto del materiale degli
archivi moderni alla conoscenza del periodo.
8. M. G.
ARRU, S. DORE, La ricerca storica: l’apporto della ricerca bibliografica e
dell'analisi del materiale degli archivi moderni alla conoscenza del periodo.
Dibattito
GIOVEDI 18 OTTOBRE 2012
Ore 9
Vita e morte dei centri urbani fra ‘700 e 1100: fine della
città tardoantica?
1. E.
ZANINI, L'VIII secolo a Gortina di Creta e qualche idea sulla fine della città
antica nel Mediterraneo.
2. R.
MARTORELLI, D. MUREDDU, Cagliari: persistenze e spostamenti del centro abitato
fra VIII e XI secolo.
3. P.G.
SPANU, R. ZUCCA, Le città della Sardegna centro-occidentale fra VIII e XI
secolo.
4. J.
BONETTO, A.R. GHIOTTO, Nora: il "silenzio" archeologico post V-VI
secolo in alcuni quartieri. Contributi delle "assenze" alla vita e
morte delle città.
5. C.
TRONCHETTI, A.M. COLAVITTI, L'area occidentale di Nora. Uso/non uso dello
spazio e trasformazioni fra VIII e XI secolo.
6. D.
ROVINA, L. BICCONE, La villa di Thatari fra X e XI secolo.
7. L.
BICCONE, A. VECCIU, Bosa tardo bizantina e giudicale: nuove riflessioni sulla
base dell'evidenza ceramica.
8. R.
D’ORIANO, G. PIETRA, Olbia dal collasso della città romana al Giudicato di Gallura:
punti fermi e problemi aperti.
9. M.
CADINU, Elementi di derivazione islamica nell'architettura e nell'urbanistica
della Sardegna medievale.
Dibattito
Ore 15
All’origine delle sedi del potere giudicale
1. B. FADDA,
I luoghi di redazione dei documenti giudicali: ville ecastelli.
2. L. MURA,
L. SORO, I luoghi giudicali: dai documenti alle testimonianze archeologiche.
3. F. G. R.
CAMPUS, L. BICCONE, Il palazzo o il castello di Ardara tra fonti scritte e primi
dati archeologici.
4. D.
DETTORI, La domo giudicale di Thergu IX-XI secolo. Organizzazione, evoluzione e
dati di vita quotidiana.
5. F. PINNA,
Le sedi del potere nel giudicato di Gallura: alcune riflessioni.
L’assetto del territorio
6. P. G.
SPANU, P. FOIS, Gli insediamenti rurali della Sardegna altomedievale.
7. D.
ARTIZZU, Ambiente e agricoltura in Sardegna fra la fine del VII secolo e le
prime incursioni arabe.
8. E. GARAU,
Da Nora a Neapolis. L'organizzazione del territorio dalla tarda antichità.
9. D. SALVI,
A. L. SANNA, Frequentazioni altomedievali nel Barigadu: il templum Iovis di
Bidonì.
10. E. TRUDU,
Il territorio della Sardegna centro-orientale: la continuità di frequentazione
dall’età romana sino all’VIII-IX secolo.
11. F. SANNA,
Cultura artistica rupestre di età bizantina nel nord Sardegna: i casi diOschiri
e Mores.
12. M.
MILANESE, Insediamenti rurali nei secoli centrali del Medioevo nella Sardegna
nord-occidentale. Il contributo della ceramica Forum Ware.
Dibattito
Cena sociale
VENERDI 19 OTTOBRE 2012
Ore 9
Indicatori cronologici e socio-economici dalla cultura
materiale
1. F. PINNA,
Indicatori cronologici e socio-economici per la storia del Sardegna tra VIII e
XI secolo: aspetti e problemi.
2. S.
MARINI, La ceramica da fuoco in Sardegna tra VIII e XI secolo.
3. E. SANNA,
I contenitori da trasporto in Sardegna tra VIII e XI secolo: dati e problemi.
4. D. CORDA,
La ceramica dipinta in Sardegna: attestazioni e problemi cronologici.
5. M.
MURESU, I reperti metallici in Sardegna tra VIII e XI secolo: problematiche e
prospettive di ricerca.
6. I. SANNA,
L. SORO, Nel mare della Sardegna centro meridionale tra 700 e 1100 d.C., un
contributo dalla ricerca archeologica subacquea.
7. D.
ANEDDA, C. NONNE, Tecniche costruttive altomedievali in Sardegna.
Dibattito
Ore 15
La sfera ecclesiastica: Chiesa Romana, Bizantina o Sarda?
L’architettura delle chiese, i monasteri, il culto dei santi
1. M.
VIDILI, Per una mappa ecclesiastica della Sardegna dal V all’XI secolo.
2. D. SALVI,
P. FOIS, San Saturnino: un luogo di culto fra cristiani e musulmani nel IX-X
secolo?
3. E.
CURRELI, Riflessi iconografici della religiosità: status quaestionis sulla
pittura in Sardegna fra VIII e XI secolo
4. N. USAI,
La decorazione pittorica della cripta di San Lussorio a Fordongianus.
5. G. MELE,
Ancora sul codice visigotico 'veronensis' LXXXIX. Questioni storiografiche su
liturgia e canti nella Sardegna alto-medioevale.
6. A. PALA,
Il bisso sardo nei paramenti pontificali di Leone IV (847-855).
Dibattito
Ore 17.15
Tavola Rotonda: un bilancio del Convegno
Link dell'evento:
Iscriviti a:
Post (Atom)