Mercoledì, 31 ottobre 2012 - 10:36:00
di Fabio Isman
È raro trovare in un solo oggetto, o gruppo, la sintesi di
tanti tra i malanni che, da sempre, affliggono i beni culturali in Italia; ma i
Giganti sardi di Mont’e Prama ne racchiudono parecchi, e quindi servono da
esempio: costituiscono (anche) una cartina di tornasole. Iniziamo da che cosa
sono: forse, le più antiche sculture a tutto tondo nell’intero Mediterraneo,
dopo quelle egizie; potrebbero essere addirittura precedenti ai “kouroi” greci;
la loro nascita è misteriosa: c’è chi li data perfino al X-IX secolo a.C.,
quantunque probabilmente risalgano all’VIII. Sono un complesso senza pari,
anche per l’entità: ritrovati cinquemiladuecento frammenti, dieci tonnellate di
peso, che, ricomposti, hanno ridato vita (è il caso di dirlo) a venticinque
statue tra guerrieri, arcieri e pugili, in arenaria e alti circa due metri, con
alcuni modelli di nuraghe; recuperati quindici teste e ventidue busti. E ora,
continuiamo con il resto, partendo dal ritrovamento. Siamo verso Cabras, a
marzo 1974, vicino a Sinis (è sbagliato, siamo propriamente nel Sinis) ; arando un terreno, i contadini Sisinnio Poddi e
Battista Meli urtano in qualcosa di strano. Spaventati, danno l’allarme.
Intervengono i massimi archeologi sardi, Enrico Atzeni e Giovanni Lilliu (un
Guerriero è perfino la copertina del suo libro La civiltà nuragica, 1982): la
scoperta parte da qui. Ma i contadini aspettano ancora il premio di
rinvenimento. Il primo malanno è la dimenticanza dei secoli; il secondo, quella
delle istituzioni; e poi, c’è l’incuria. Ogni anno i frammenti venivano
accantonati; e ogni anno, ci si accorgeva che il mucchio era più esiguo: forse
qualcuno portava via le pietre, magari per usarle come materiale da
costruzione.
Vengono subito organizzate campagne di scavo tra il 1975 e
il 1979; le ultime, dirette da Carlo Tronchetti. Il bendiddio che, si è detto,
era vicino a trentatre tombe a pozzetto affiancate, senza corredi funerari
tranne un misterioso scarabeo egizio. I reperti sono trasportati al museo di
Cagliari; e lì giaceranno per trentadue anni (è il secondo malanno),
incredibilmente dimenticati. La maggiore scoperta sarda (e non solo) del
dopoguerra è rimossa, nascosta, per nulla accudita: appena poche parti esposte
nel museo del capoluogo, o prestate a qualche mostra. Se ne riparla finalmente
nel 2007: a Sassari, al centro regionale di Li Punti, iniziano quattro anni di
difficile, coraggioso, mirabolante restauro. Le opere, ricomposte, dal novembre
2011 vi sono esposte per la prima volta nella loro interezza. Chi le vuole del
VII secolo a.C., chi le crede precedenti; chi le immagina in un santuario, chi
le pensa dei giganti a guardia di una tomba principesca, mai trovata; intere, o
in frammenti, decine di statue che restano misteriose, in un luogo, da sempre,
tra i più densi di storia e di passato di tutta l’isola. Mont’e Prama significa
monte Palma: monte anche se il rilievo è di cinquanta metri; la palma è quella
nana, un tempo tipica della zona. Non lontano, è stato ipotizzato un santuario,
un “heroon” dell’VIII secolo a.C., luogo funebre dedicato agli eroi; e la
penisola del Sinis, su cui è prosperata la fenicia Tharros, è vicinissima, già
abitata seimila anni or sono. Era un’importante area economica e commerciale,
testa di ponte verso la penisola iberica: milletrecento anni avanti Cristo vi
approdano i micenei e i filistei; è un grande centro della civiltà nuragica,
iniziata tra il 1600 e il 1200 a.C., e certamente terminata prima del 700 a.C.:
centosei monumenti di questo tipo nei dintorni, uno per chilometro quadrato,
«sessantadue monotorre, trentasei più complessi, otto non definiti», dice l’ex
soprintendente di Cagliari, Vincenzo Santoni. Per alcuni, i Giganti si possono
identificare con i mitici Sherden, “popolo del mare” di allora, in qualche modo
collegabili a uno tra i miti della fondazione dell’isola, colonizzata da Iolao
con cinquanta Tespiadi: con un tempio in suo onore, di cui tante fonti parlano,
dallo Pseudo-Aristotele, a Diodoro Siculo, Pausania e Silio Italico.
Nelle tombe, c’erano resti maschili e femminili, dai tredici
ai cinquant’anni, una sepoltura per pozzetto. I Giganti sono successivi alle
inumazioni. Hanno sopracciglia e naso assai marcati, sul viso triangolare; i
grandi occhi sono due cerchi concentrici incisi; le bocche delle fessure,
talora ad angolo. Sono tutti in piedi, con le gambe leggermente divaricate;
poggiano su basi quadrangolari. Sul corpo hanno motivi geometrici incisi: linee
parallele e a zig zag, cerchi concentrici; le trecce a rilievo, con motivi a
spina di pesce. Forse, erano dipinti: un arciere reca ancora tracce di rosso.
Ardui i confronti: li dice orientalizzanti Tronchetti, e nota richiami
all’Etruria arcaica; Lilliu sottolinea i parallelismi con i bronzetti sardi;
altri si spinge fino ai piceni e ai dauni. Che siano semplicemente un unicum,
un “hapax” senza emuli noti? I pugili hanno uno strumento di difesa, che
avvolgeva l’avambraccio; sono evidenziati ombelico e capezzoli, e portano un
gonnellino: giochi sacri in onore del defunto? È il braccio destro a essere
rivestito da una guaina; il sinistro è alzato e tiene alto uno scudo. Ci sono
più varianti nei cinque arcieri ricostruiti: tunica corta e placca pettorale
quadrangolare; gambali; arma imbracciata; faretra sulle spalle; almeno uno, ha
un fodero di spada. Due i guerrieri con scudo tondo (ma ci sono altri pezzi di
rotelle); l’elmo, cornuto, è talora zoomorfo. Cinque infine i modelli di
nuraghi complessi, costituiti da più elementi, e venti quelli semplici; se ne
vedono i terrazzi, sulle torri una cupola conica, sono alti fino a un metro e
mezzo. Scavati pure dei “betili” (dall’ebraico “casa del dio”), pietre sacre
prive di raffigurazioni, se non per quelle di porte e spesso due finestre
incavate: Lilliu ci vedeva gli occhi di una divinità a protezione della tomba.
Era un messaggio intimidatorio rivolto ai fenici, sbarcati sulla costa nell’VIII
secolo? Qualcuno, però, crede di riconoscere mani orientali nella bottega
scultorea.
Come avete capito, i Giganti di Mont’e Prama devono
rispondere ancora a infinite domande: «La ricerca archeologica sul sito che ha
restituito le statue ha da percorrere un lungo e appassionante cammino», dice
il rettore dell’Università di Sassari, Attilio Mastino. Ma che costituiscano un
complesso fondamentale, non c’è dubbio: anche il soprintendente di Cagliari,
Marco Minoja, spiega: «Statue e sepolcri sembrano parti di un unico programma,
teso a esaltare la grandezza e la potenza di un’aristocrazia in armi». E
l’archeologo Marcello Madau: «Mont’e Prama e i suoi “kolossoi” sono un episodio
chiave della storia dell’arte mondiale»; cinquemila pezzi, scaricati in età
antica e probabilmente punica da chi distrusse il santuario, sopra una
necropoli nuragica; «in quel periodo, i cartaginesi intervengono drasticamente
sulla fenicia Tharros, dissacrandone i segni: ne diedi notizia nel 1991, dopo
una scavo nell’area del “tofet”, il santuario». La discarica, certifica
Tronchetti dai dati dei suoi scavi, non è avvenuta prima del finire del IV
secolo a.C.: «Lo dice un frammento di anfora punica rinvenuto sotto un torso di
statua». Restaurare non è stato semplice: i frammenti distesi su quattrocento
metri quadrati; la pulitura; la ricerca degli attacchi; il modo per rimetterle
in piedi. Alcune statue sono sufficientemente complete per capire; in altre,
soccorre la ripetitività. Il Pugilatore è analogo a un bronzetto ritrovato verso
Dorgali: Mont’e Prama ne ha restituiti sedici, con il loro scudo ricurvo
rettangolare poggiato sulla testa; anche le loro parti inferiori del corpo sono
scolpite in modo essenziale, e assai più dettagliata è invece la parte
superiore. Più complessi i cinque Arcieri; forse, i tipi di arco sono due, il
più grande poggiato su una spalla; la mano sinistra è rivestita da uno spesso
guanto. Il più raffinato è il Guerriero, armato di uno scudo rotondo: alcuni
elementi, in un primo tempo, erano stati attribuiti ad altre tipologie di
Giganti. Ci sono poi i modelli di nuraghe; in tutta l’isola, Mont’e Prama è il
contesto che ne ha restituiti di più: fino a cinquanta porzioni delle parti
sommitali, parapetti, terrazze, torri; alcuni hanno un diametro di sessanta centimetri.
Ma ora si vuole separare questo “unicum”, ed è il penultimo
tra i malanni che lo affliggono. Si prevede di esporre un nuraghe e una statua
per tipo a Cagliari; il resto, vicino al sito del ritrovamento; a Li Punti,
invece, la documentazione del restauro. A Cabras, però, il museo che dovrebbe
ospitarli – ed ecco l’ultimo malanno – ancora non esiste. Per ora, dopo
l’esposizione a Sassari, i Giganti sono tornati invisibili: sono in un
laboratorio, per i rilievi fotogrammetrici, le scansioni digitali da cui
trarre, magari, copie od olografie. Ma poi, dove finiranno? Parte, si è deciso,
a Cagliari; ma il resto, di nuovo in un deposito, magari per altri trent’anni?
Non solo: anche questa “diaspora” genera inquietudine e proteste. Un appello
con mille firme autorevoli, a cominciare dall’archeologo Mario Torelli, è sul
tavolo del ministro Ornaghi; Salvatore Settis ritiene «che il gruppo,
decisamente, non debba essere smembrato», anche perché «la moltiplicazione
delle sedi museali è tra le ragioni per cui i musei in tutto il mondo,
diventati troppi, cominciano a chiudere, senza molti vantaggi né per le opere
né per gli utenti». «Chiediamo di destinare, per le esigenze proprie di un
museo come quello nazionale di Cagliari, copie a regola d’arte: di tutto il
complesso», dice l’appello; intanto, l’unica certezza è che una rappresentanza
dei Giganti stava per partire per le Olimpiadi di Londra e l’Esposizione
universale in Corea: all’ultimo, per fortuna, non è accaduto, perché, si sa, i
capolavori italiani viaggiano, addirittura troppo. Qualcuno raccoglierà il
grido di dolore, o, una volta di più, le esigenze dello spettacolo trionferanno
su quelle scientifiche?
Tratto dal numero di novembre della rivista Art e Dossier